Garantire i diritti umani non può indebolire la lotta alla mafia

A distanza di quasi una trentina d’anni dalla sua introduzione nell’ordinamento penitenziario italiano e dopo una discussione durata un anno sulla sua legittimità, poco più di una settimana fa l’ergastolo ostativo è stato dichiarato parzialmente incostituzionale. A stabilirlo è stata la Corte Costituzionale, il cui verdetto arriva dopo svariate segnalazioni da parte della Corte Europea per i diritti umani che, già a giugno 2019, aveva messo in dubbio le fondamenta di questa pena dichiarandole in contraddizione con le norme della CEDU in materia di trattamento dei detenuti. Una decisione che ha senza dubbio del discutibile se si considera la rilevanza assunta dall’ergastolo ostativo nella lotta alla criminalità organizzata dagli anni del maxiprocesso di Falcone e Borsellino in avanti. 

Se fino ad oggi infatti la possibilità data ai condannati per mafia di ricevere benefici o permessi premio era inevitabilmente legata a una qualche forma di collaborazione con la giustizia, in seguito alle dichiarazioni della Corte Costituzionale questo efficace sistema è destinato ad entrare in crisi fornendo, per ironia della sorte, nuovi ostacoli a indagini già di per sé complesse. Sia ben chiaro che questo provvedimento non si tradurrà in un’improvvisa e alquanto irrealistica messa in libertà di boss ed ergastolani, le conseguenze sono di ben altra natura e, se possibile, ancora più pericolose. L’elevato grado di soggettività a cui potrebbero far riferimento d’ora in avanti i criteri di giudizio sui requisiti necessari a ottenere un permesso premio, quali la buona condotta o l’ancor più controverso concetto di pentimento, è destinato a minare alla sopravvivenza di uno dei pochi strumenti finora rilevatisi efficaci nella lotta alla mafia.

Secondo quanto stabilito dalla legge del 1992, infatti, per il mafioso che volesse fruire di un qualsivoglia beneficio la pena di ergastolo ostativo non impedisce di per sé l’accesso alla forma premiale ma bensì la riconduce ad una sorta di decisione tra la vita, la collaborazione con la giustizia, e la morte, il silenzio e il prolungamento della pena senza beneficio alcuno, all’irrevocabile scelta dunque di recidere i legami con la subcultura criminale di appartenenza. La logica è semplice, in un certo senso in linea con lo stesso sistema valoriale mafioso: se parli, sei fuori dai giochi del clan o della famiglia. Non dovrebbe risultare difficile a questo punto capire perché mantenere la legge sull’ergastolo ostativo nella sua forma originaria sia così importante. Una volta create le condizioni attraverso cui il mafioso si sottrae alla rete di connessioni tipica della criminalità organizzata, lasciando così un vuoto nel sistema di interazioni, si permette alla giustizia di penetrare in quello stesso spazio, apprenderne le dinamiche e contrastarle con efficacia. 

Nel corso della discussione e nei giorni che hanno seguito la dichiarazione c’è chi ha parlato di un provvedimento, quello della Corte Costituzionale, preso in nome dei diritti dei mafiosi che, ancor prima di essere tali, sarebbero da considerare al pari di un qualsiasi altro detenuto e di conseguenza dignitari delle medesime opportunità di rieducazione. È proprio qui che il discorso scade, se non nel ridicolo, certamente nel paradossale. Garantire i diritti umani dei condannati è altra cosa rispetto a indebolire una pratica penitenziaria.