Il dito puntato contro Uber Eats: sfrutta i riders?

Durante i mesi del lockdown sono in tanti ad aver accusato gli effetti della chiusura totale del Paese sul piano economico: dal settore della ristorazione e dei piccoli commercianti a quello delle imprese e dello spettacolo, la quarantena non ha risparmiato nessuno. O quasi. Con l’emergenza sanitaria e l’impossibilità di recarsi al ristorante per una cena, anche solo tra congiunti, i servizi di consegna a domicilio sono esplosi e la gig economy, il fenomeno degli ultimi anni, ha trovato terreno fertile per la propria diffusione. Anche in questo caso però ad arricchirsi non sono stati in molti e tra questi di certo non figurano i rider che tra marzo e maggio hanno portato i ristoranti a casa degli italiani. 

La gig economy, o economia dei lavoretti per i meno anglofoni, è una delle nuove forme di organizzazione dell’economia digitale basata sulla collaborazione tra grandi piattaforme digitali, a cui è affidata l’organizzazione e gestione del servizio e la mediazione con i ristoratori, e lavoratori occasionali, o freelance, che lo realizzano. Diffusasi oltreoceano per poi sbarcare in Italia, dove a rappresentare il settore è Uber Italy, questa nuova forma di organizzazione del lavoro ha mostrato ben presto i propri limiti e un trattamento tutt’altro che rispettoso dei diritti dei propri lavoratori. 

Proprio nel maggio di quest’anno la Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano aveva infatti disposto il commissariamento per caporalato di Uber Italy srl, ritenuta responsabile per lo sfruttamento dei rider e di reati fiscali. Le indagini in merito, conclusesi il 13 ottobre, parlano chiaro: la filiale italiana di Uber avrebbe reclutato come rider soggetti, quali, ad esempio, migranti o risiedenti in centri di accoglienza temporanei, in situazioni di emarginazione sociale garantendo, per così dire, salari da fame e ben poche tutele. 

«La mia paga era sempre di 3 euro a consegna indipendentemente dal giorno e dall’ora» testimonia uno dei rider nel decreto con cui è stata commissariata l’azienda. A rendere questo tipo di occupazioni assimilabili a forme di sfruttamento non è però solo l’irrisoria paga, già di per sè umiliante, ma anche, nella grande maggioranza dei casi, la totale assenza nei contratti di tutele in caso di malattia e infortuni sul lavoro. Oltre al danno anche la beffa insomma e, se sei un rider, professione che di certo non è scelta per le prospettive di carriera o la stabilità che offre, questo lo impari a spese tue nel momento in cui scivoli sull’asfalto bagnato e, oltre a non ricevere i 3 euro della consegna, devi provvedere da solo ai danni che tu stesso hai subito. 

Il 22 ottobre Uber Italy srl dovrà affrontare un’udienza alla Sezione misure di prevenzione in cui sarà chiamata a rispondere delle proprie azioni e in cui, di fatto, si deciderà della sopravvivenza della società. Una società che, è bene ricordarlo, è accusata di aver egoisticamente sfruttato l’isolamento sociale dei propri lavoratori alimentando un sistema di disperati che, per sopravvivere, si ritiene siano costretti a consegnare la cena in sella alla loro bicicletta perché qualcuno, ingenuamente, ha trovato divertente provare a ordinarla da un’app.