Il vescovo di Alba chiede alloggio per i braccianti, ma non si domanda perché non possono permetterselo

Il 6 ottobre, sulla testata locale piemontese La Voce di Alba, è stato pubblicato un articolo contenente un’accorata esortazione rivolta dal Vescovo della città al Comune della stessa. Il tema è quello dei braccianti coinvolti nella vendemmia lungo i filari che ricamano le rigogliose colline delle Langhe e del Roero.

Monsignor Brunetti è apparso piuttosto apprensivo riguardo la situazione che è venuta a crearsi nel territorio della sua diocesi. I braccianti di cui sopra, infatti, sono migranti assoldati per la raccolta dell’uva, i quali, una volta terminata la faticosa giornata all’interno delle vigne, si ritrovano senza un luogo dove consumare la cena e trascorrere le ore notturne.

Così si è espresso il Vescovo: «Improvvisamente Alba si è trovata con una quarantina di africani che non sapevano dove trovare rifugio per la notte, mettendo in allarme il Comune, i servizi sociali e le forze dell’ordine. La Caritas, attraverso il suo braccio operativo che è il Centro Prima Accoglienza di via Pola, ha messo a disposizione il dormitorio e uno spazio per piazzare delle tende e offrire con la mensa la cena a circa 90 persone (…)».

Continua, poi, rivolgendosi direttamente all’amministrazione comunale: «Vorrei fare un appello al Comune di Alba, affinché, in collaborazione con i servizi sociali e anche la Caritas, possa formulare un progetto per dare ospitalità a quei lavoratori di cui c’è bisogno sul nostro territorio tutto l’anno da affiancare a quello della Caritas, per affrontare emergenze come questa, ma anche in previsione del prossimo inverno che è alle porte. La Caritas diocesana con i servizi del Cpa non può soddisfare tutto il fabbisogno. Detto questo, confermo la disponibilità della diocesi a collaborare con le istituzioni preposte per aiutare queste persone immigrate e che lavorano sul nostro territorio».

Gli aspetti di questa vicenda che gettano nella perplessità sono molteplici e probabilmente non tutti affrontabili, in poche righe, con l’approfondimento che si dovrebbe a questioni così delicate. Ci limitiamo, perciò, a soffermarci su quello più lampante, sebbene passato sotto silenzio.

Sarebbe stato opportuno che Monsignor Brunetti, a latere di queste dichiarazioni così dense di preoccupazioni, avesse pronunciato degli interrogativi da sottoporre ai datori di lavoro di queste persone il cui disagio si sta apparentemente adoperando a lenire, ma non solo, all’opinione pubblica nel suo complesso. Il principale fra questi, all’occhio di chi scrive, appare estremamente banale: perché i braccianti non hanno di che mangiare e dove dormire? Qui non si sta discutendo, infatti, di stranieri richiedenti asilo che, partiti dalla loro terra con la speranza di risultare idonei al riconoscimento di una forma di protezione, si avventurano nel nostro Paese senza sapere di che sopravvivere e di conseguenza necessitano di pasti e letti. Nel caso in oggetto, si tratta sì di migranti, ma il loro status giuridico importa fino a un certo punto ai fini del mettere insieme il pranzo con la cena. Se costoro, infatti, sono impiegati, anche solo temporaneamente, presso le aziende agricole della zona, ciò sta a significare che hanno un lavoro.

Lavorando, quindi, potrebbero permettersi di occupare la stanza di un affittacamere, oppure prendere in locazione un immobile, anche in condivisione tra loro, in modo da avere un tetto sulla testa ogni sera, per riposarsi dalla fatica consumata nei campi. Se questi ragazzi, invece, non possono affrontare le spese relative al conto di un B&B o al canone di un alloggetto, è chiaro che la retribuzione a loro destinata è offensiva del concetto di lavoro e ben più collimante con quello di schiavitù.

Questo sarebbe stato onesto da parte del religioso albese: inchiodare gli imprenditori agricoli di fronte alle loro responsabilità, far confessare loro che preferiscono la manodopera africana a quella nostrana perché la prima, per il suo vissuto antecedente, è più propensa a chinare il capo e a non scomporsi di fronte a una paga non consona allo sforzo offerto e assolutamente non conciliabile con il costo della vita in Italia.

Ergo, se ci si limita a invocare soluzioni pragmatiche in relazione al pernottamento dei braccianti, senza scavare nelle ragioni che determinano il problema, si solidarizza solo ipocritamente con costoro, mentre si fa il favore di chi se ne approfitta economicamente.