Lattine, luppolo, malto e lieviti: col giovane mastro birraio Stefano Furlanetto nel mondo della birra

Arriva l’estate e con essa le agognate riaperture, i possibili incontri e le bevute con gli amici. Da sempre questo è un pretesto per bersi una birra fresca, ma che cosa si nasconde dietro il mondo del luppolo, del malto e dei lieviti?

Partendo da quest’ultimo elemento è iniziata la ricerca : «Dobbiamo considerare che fa la parte da leone nell’industria e nell’artigianato belga», ci spiega Stefano Furlanetto, giovane mastro birraio, dicendo che il lievito determina nettamente sia il profumo che il sapore della birra che andremo a bere. «Infatti, è tramite l’uso di determinati ceppi che, portati a determinate temperature, esprimono un sottile gioco di esteri e fenoli. Cosa totalmente diversa è invece quello che accade per le Lager tedesche o ceche, per le quali il lavoro principale avviene sul gioco d’equilibrio tra il malto che dona solitamente note dolci e il luppolo, che invece bilancia con una nota amarognola e beverina».

Infine, ci sono le IPA (India Pale Ale) , ma quelle fatte bene, che siano prodotte in America, Australia o Europa. In queste a farla da padrone è certamente l’uso del luppolo come ingrediente più caratterizzante, il quale dona quel carattere fruttato o resinoso. Piccolo consiglio di Stefano: «Guardare sempre la scadenza di una ipa e farsi due calcoli. Solitamente quelle da supermercato hanno un anno: una ipa in forma non deve avere più di tre o quattro mesi. Purtroppo i terpeni (le molecole aromatiche) dei luppoli decadono in fretta, sei/sette mesi se la si tiene in frigo costantemente!».

Scoprendo questi determinati stili, si possono iniziare a comparare qualità e prezzo, specie al supermercato dove, in base a quanto appreso con Stefano, si possono iniziare a fare dei confronti, derivanti anche dalla logistica, oramai parte integrante della vita di ogni birra.

Su questo Stefano di nuovo ci viene in aiuto: «Sì, spesso alle IPA è preferibile bere le birre belghe o in stile belga che sono un pelo più maltrattabili  da un punto di vista logistico, ma la birra è pur sempre un prodotto vivo, soprattutto quando non è filtrata o viene rifermentata in bottiglia».

Dopo una conoscenza un po’ più approfondita delle meccaniche di trasporto ci si potrebbe chiedere se allora non è più conveniente consumare un prodotto del territorio, scusa che permette a Stefano di raccontarci lo stato della birra tricolore : «La birra in Italia fino a prima di Teo Musso, patron del birrificio piemontese Le Baladin, non aveva un prezzo guida per il comparto artigianale, anzi diciamo che non c’era proprio un comparto artigianale prima di Baladin! Alla fine, tolte le classiche, noi italiani ricerchiamo le nicchie, motivo per cui i big nostrani, hanno indirizzato proprio sul prodotto a richiamo artigianale i processi di marketing. Certamente c’è chi sa fare molto bene la birra di metodo, ma al momento possiamo tranquillamente affermare che il 95 % del mercato italiano è composto dai grandi marchi. Diventa difficile valutare una qualità standard al di fuori dei soliti noti, anche se una prova del nove c’è! Il comparto artigianale si sta confrontando con la sfida della lattina. Abbandoniamo il preconcetto sbagliato che sia il packaging dei poveri. Le lattine costano di meno, ma assicurano maggiore controllo sulla luce, che non può passare come invece succede con il vetro. Inoltre la microossidazione, le capacità di storage e packaging sono migliori. Pensiamolo come il miglior contenitore che possiamo avere per molti tipi di birra: metterci un prodotto all’interno è ovviamente più difficile per il processo tecnico stesso, ma questo rende il senso di sfida e di capacità del produttore».

Dopo aver appreso così tanto sul mondo della birra, ci si chiede se non sia inevitabile un confronto con quello del vino, argomento che Stefano sdogana immediatamente : «La birra e il vino hanno storie diverse e antiche, ma che hanno saputo intersecarsi grazie alla civilizzazione. Pensa all’espansione dell’Impero Romano: va bene che loro erano grandi bevitori di vino, ma nessuno può pensare che lo producessero in tutte le province! Nei luoghi più periferici si continuava a bere birra, che veniva però anche importata dalla Grande Capitale. Do ut des. Pensa che ora facciamo pure le birre percentuali d’uva, sono l’unico stile italiano riconosciuto a livello di BJCP, il manuale degli stili: le IGA. Non mi piace pensare ad un confronto: io amo il vino, amo la birra, sono due mondi che devono convivere aiutandosi! Ricercando sempre la qualità, ovviamente».