Migranti: se anche un «no border» ammette che sono soprattutto forza lavoro

Con l’emergenza coronavirus alcuni di quei temi che abitualmente dirompevano, preponderanti nelle discussioni dell’opinione pubblica pare abbiano assunto un ruolo secondario. In realtà, così non è, anzi. Pur essendo trattati con minore intensità a livello di dibattito, essi non cessano di essere attuali e, in alcuni casi, i problemi a essi correlati si sono acuiti. Tra questi, spunta quello dell’immigrazione e di tutti quegli aspetti che da esso derivano.

Ci accorgiamo, infatti, una volta di più, come alcuni settori produttivi al giorno d’oggi, nel nostro Paese, si reggono principalmente sulla manodopera prestata dai migranti. Notizia di queste settimane è, infatti, l’affanno procurato dalla diffusione del Covid-19 al mondo dell’agricoltura; questo non poiché le misure di contenimento impediscano di accudire le colture (sappiamo che la filiera alimentare non si è arrestata, per forza di cose), ma per il fatto che molti lavoratori stranieri hanno fatto fagotto e sono fuggiti in patria, impauriti dall’infezione, mentre altri, quest’anno, non raggiungeranno il territorio italiano, come invece erano soliti fare. Queste circostanze hanno gettato nel panico migliaia di imprenditori agricoli che non hanno idea di come riuscire a gestire le operazioni di raccolto senza il determinante ausilio a buon prezzo dei migranti.

Poniamo una piccola premessa. Al netto di indicibili episodi di sfruttamento equiparabili alla schiavitù, non si possono demonizzare tutti i titolari di un’impresa agricola, ritenendoli uniformemente responsabili. Corrisponde al vero il ritratto di innumerevoli braccianti prosciugati da compiti gravosi, in condizioni di vita impietose e assolutamente non ripagati degli sforzi affrontati tramite una degna retribuzione: non è più un fatto recondito il capolarato. Vi sono, però, anche molti agricoltori che, invece, tentano di attenersi a buone pratiche, ma spesso queste non vanno a buon fine. Un viticoltore, infatti, ci ha spiegato che si avvale di soci di una cooperativa per riempire le ceste di grappoli d’uva e che corrisponde 15 euro l’ora a persona alla cooperativa. Di questi, quanti raggiungeranno il portafogli del lavoratore? Purtroppo non sa darsi risposta, giacché a questa domanda gli operai si sottraggono, evidentemente intimoriti. Costui afferma anche che non potrebbe che accostarsi alle cooperative, essendo il lavoro stagionale non combaciante con un contratto di lavoro subordinato duraturo. Quindi, si delinea un problema di sistema.

Ciononostante, la preoccupazione di queste ore appare veramente paradossale in uno Stato in cui certamente non è stata raggiunta la piena occupazione. Tutt’altro, ne siamo ben consci. A febbraio, il tasso di disoccupazione generale si è attestato al 9,7% e le previsioni sono apocalittiche: Goldman Sachs stima che raggiungeremo il 17% di disoccupati entro l’anno, visti i danni cagionati all’economia dalle misure restrittive applicate. Eppure, ci si dispera perché non si sa come cogliere frutti e ortaggi. Come potrebbe essere altrimenti in un ordinamento in cui si scarica la competizione sui salari? Ecco che viene scolpito a caratteri cubitali ciò che molti ancora non sono riusciti ad assimilare: i migranti sono, prima di tutto, forza lavoro. No, non lo sta sostenendo un antimmigrazionista in collera col diverso o semplicemente attento alla questione dal punto di vista socio-economico. Lo affermava già, ben 24 anni fa, una voce più che favorevole ai flussi migratori e perciò degna di nota in questa analisi: il premio Nobel per la letteratura Mario Vargas Llosa. Egli, in un articolo intitolato «La benedizione degli immigrati», apparso sul quotidiano La Repubblica il 10 settembre 1996, si esprime sottolineando la necessità delle frontiere aperte.

Nel libro «Io, venditore di elefanti», così viene presentato lo scritto del letterato: «Il suo punto di partenza è vedere gli immigrati, prima ancora che come persone, prima che come portatori di diritti e doveri, come portatori di quella particolare merce che è la forza lavoro». Infatti, lo scrittore e drammaturgo elogia l’azione dei migranti nel «prodigioso sviluppo che hanno vissuto gli Stati Uniti nel XIX secolo, così come l’Argentina, il Canada o il Venezuela», siccome esso coincise con le «porte aperte all’immigrazione». Insomma, nulla di particolarmente innovativo sul fronte «no border», ma è bene osservare come nell’articolo tutto ruoti intorno al concetto di lavoro, al rapporto tra domanda e offerta di manodopera che intercorre tra i paesi industrializzati e il Terzo Mondo: non un’osservazione sul diritto a vivere lì dove si è consumato il proprio primo vagito, tanto meno una benché approssimativa analisi sulla concorrenza aspra tra dipendenti esteri e locali di cui beneficiano i datori di lavoro. L’aspetto umano viene relegato a un piano secondario, tuttalpiù adottato a fini propagandistici.

Da ciò, si cristallizza il dovere di non esimerci dal criticare questo sistema che non problematizza il fenomeno dell’immigrazione evidenziando la tragedia che rappresenta il fatto di dover recidere le proprie radici, ma che si bea di questa sciagura per trarne profitto, ai danni dell’umanità tutta.