Se il potere è di un uomo che si chiama Donald

Una delle mosse della neonata amministrazione statunitense che più hanno fatto discutere è sicuramente quella sull’immigrazione. Il presidente Donald Trump, con un decreto che durerà 120 giorni e firmato pochi giorni fa, sancisce, tra le altre cose, lo stop all’immigrazione da Siria, Iran, Iraq, Yemen, Sudan, Libia e Somalia, Paesi a maggioranza musulmana, come misura antiterrorismo.
Sono inoltre impossibilitati a entrare in America tutti i rifugiati, qualunque sia la loro nazione d’origine, ed è previsto, per il futuro, che venga data priorità ai richiedenti di fede cristiana. Le proteste sono state immediate, con prese di posizione anche dell’Onu e dell’Unione Europea. La prima ha definito l’atto «illegale» e «malvagio», mentre la seconda ha ribadito l’impegno contro ogni forma di discriminazione e ha espresso le sue preoccupazioni riguardo i cittadini con doppio passaporto. Forti sono state anche le proteste su base popolare, con manifestazioni in tutte le principali città statunitensi, spesso guidate da personalità di spicco del mondo artistico e accademico.
Le principali aziende hi-tech americane, tra cui Facebook e Google, che basano la loro potenza commerciale anche sul reclutamento di forza lavoro altamente qualificata da ogni parte del mondo, hanno partecipato al malcontento, anche invitando i propri dipendenti in viaggio all’estero a rientrare il più presto possibile per evitare di avere problemi. È stata, inoltre, criticata la scelta dei paesi coinvolti, soprattutto per l’esclusione di nazioni come l’Arabia Saudita ed Egitto, più pericolosi da un punto di vista terroristico, ma con cui gli Stati Uniti (e le stesse aziende legate a Trump) hanno importanti interessi economici.
L’ex-presidente Barack Obama si è detto contrariato dal provvedimento che, a suo modo di vedere, sarebbe contrario ai principi di base su cui si fonda la costituzione americana, ma ha anche espresso gioia per la reazione di una parte della nazione. Proprio in questo senso, in realtà il decreto è già stato ridimensionato grazie all’intervento di associazioni che hanno dato appoggio legale alle persone coinvolte e da una sentenza a favore di due cittadini iracheni, bloccati in aeroporto a New York, che potrebbe essere il primo step per dimostrare l’incostituzionalità dello stesso. Anche lo staff del tycoon è stato obbligato a fare un passo indietro, dichiarando che, contrariamente a quanto inizialmente affermato, il disegno non si applica ai possessori di una green card.
Da parte sua, Trump si difende affermando che sta solo applicando le promesse fatte in campagna elettorale e così facendo sposta il bersaglio da sé ai suoi elettori. L’evolversi della questione, da un punto di vista più generale, è legato, proprio per questo, in modo indissolubile al problema forse più grande delle democrazie occidentali, troppo spesso sprovviste di contrappesi in tutti quei casi in cui la volontà della maggioranza è eticamente sbagliata, rischiando di innescare una transizione fluida verso un nazionalismo cieco e privo di buon senso.