Trump e la discontinuità fine a se stessa

A meno di un mese dal suo insediamento ufficiale, visto da molti con curiosità ma da molti altri con paura e preoccupazione, Donald Trump cerca fin da subito di ridisegnare le relazioni internazionali.
Dopo, infatti, la presa di distanza netta dal suo predecessore alla Casa Bianca, nei primissimi giorni di presidenza ha firmato una serie di ordini esecutivi che hanno smantellato alcuni dei grandi risultati rivendicati dall’ex presidente Barack Obama. In primis, il congelamento della riforma sanitaria comunemente chiamata Obamacare,  in attesa di rivederne le regole, fin troppo gravose per le finanze dello Stato, a detta del neo presidente.
Stralciato subito anche il Tpp, l’accordo commerciale Trans-Pacifico siglato con 12 paesi sulle due sponde del Pacifico, che aveva come scopo quello di creare un mercato unico, tagliando i dazi e le tariffe su oltre 18mila prodotti agricoli e industriali. Obama riteneva che avrebbe dato un enorme slancio al commercio Usa, ma Trump (anche se il trattato non era ancora stato ratificato dal Congresso) ha virato verso una svolta decisamente protezionistica, a salvaguardia dei lavoratori statunitensi che ne sarebbero stati penalizzati in termini di competitività.
L’intenzione di Trump è infatti quella di stipulare accordi bilaterali con i singoli paesi asiatici da una posizione di vantaggio. Non a caso i primi colloqui diplomatici sono occorsi con la premier britannica Theresa May, paladina della Brexit con cui intende ritrattare in maniera bilaterale le proprie relazioni. Stesso dicasi per gli altri paesi europei, snobbando i vertici Ue (non rispondendo nemmeno alla lettera di congratulazioni del presidente della commissione europea Junker in seguito all’insediamento), lanciando strali alla Merkel e esaltando gli euroscettici («L’euro è un implicito marco tedesco», ha affermato recentemente il consigliere al commercio Usa Peter Navarro).
L’altro provvedimento che si inserisce in netta discontinuità con il suo predecessore è il «Mexico City abortion rules» che ristabilisce di fatto il divieto di finanziare con fondi federali le Organizzazioni non governative internazionali che praticano aborti, misura cara ai repubblicani e che rafforza i legami con l’ala degli ultra-conservatori.
Ma è proprio sul tema dell’immigrazione che volano le critiche più dure tra le opposizioni interne (ed esterne) al presidente, con la scelta di costruire (o meglio fortificare visto che fu già creato dall’allora presidente dem Clinton) il muro ai confini con il Messico, a spese di quest’ultimo paese, il cui presidente Nieto però non ne ha voluto sapere. Anche in politica estera le mosse sono altrettanto nette e radicali. Innanzitutto il neo inquilino alla White House ha messo in chiaro fin da subito la volontà di contrastare definitivamente il terrorismo ma non risparmiando critiche alla Nato, definita come una «organizzazione obsoleta».
Di mezzo c’è la questione del discusso «Muslim Ban», l’ordine esecutivo sull’immigrazione che sospende l’ingresso per 90 giorni di stranieri provenienti da 7 paesi (Siria, Iraq, Somalia, Libia, Yemen, Iran e Sudan) nell’interesse per la sicurezza nazionale, misura ora sospesa dalla Corte d’Appello Federale e che finirà probabilmente davanti all’Alta Corte Suprema.
Indipendentemente dagli esiti di questa vicenda le ricadute nella diplomazia internazionale sono evidenti. Se il clima da guerra fredda perseverato dall’amministrazione Obama sembra ormai acqua passata, si ricongelano invece i rapporti con l’Iran, che proprio nel luglio del 2015 con l’accordo sul nucleare erano tornati gioviali. Ma il neo presidente Trump, in un eccesso di discontinuità ha definito quell’accordo «il peggiore della storia» scatenando l’ira delle alte cariche iraniane: «Trump dice “abbiate paura di me”, il popolo risponderà  nelle manifestazioni del 10 febbraio (anniversario della Rivoluzione) e mostrerà la sua posizione di fronte alle minacce», ha detto la guida suprema dell’Iran ayatollah Sayyed Ali Khamenei nel corso di un incontro con i comandanti militari. E in merito al «Muslim Ban» anche il presidente iraniano ha mostrato il suo disappunto affermando il 28 gennaio scorso alla tv di Stato che «non è questo il momento per separare le persone». Se certamente la coerenza è una dote innegabile di Trump, che sta dimostrando di rispettare gli impegni presi in campagna elettorale e al netto degli errori politici commessi dal suo predecessore il rischio è quello però di gettare il bambino con l’acqua sporca con equilibri e scenari  del tutto inediti che si aprono nel panorama internazionale.

Ivan Piedepalumbo