Civati e la «sindrome Pd»

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«Potessi votare liberamente senza mettere in discussione i rapporti col Pd voterei no con convinzione. Non è una questione di disciplina di partito, ma se io non dovessi votare un governo che ha una legittimazione del Pd dovrei uscire dal partito». Era la fine di febbraio 2014, in Parlamento si doveva votare la fiducia al neonominato governo Renzi. Questo che avete appena letto è stato il commento di Giuseppe «Pippo» Civati, da alcuni mesi leader del movimento di centrosinistra Possibile.
Non posso nascondere una sottile simpatia verso Civati: ci accomuna – se mi è possibile azzardare un confronto – la vena di eterni rompiballe, oltre che il percorso di studi. Nonostante le idee politiche in molti ambiti opposte, ho sempre guardato a Pippo con curiosità: la domanda che mi ponevo era sempre «E adesso cosa farà?».
Il Nostro è afflitto da quella fastidiosa sindrome quasi masochistica che affligge da tempo tutti i cosiddetti «dissidenti» interni al Pd: «
Ho parlato contro solo io (a Renzi, ndr) nel luogo deputato, il partito, e ho fatto il mio dovere. Sono stato mandato in minoranza e non mi era concesso da parlamentare del Pd negare la fiducia», per usare le parole di Civati stesso in un’intervista a Antonello Caporale del Fatto Quotidiano (27.02.2014). In altre parole quando si appartiene ad un partito, anche se il partito in questione sta facendo cose per le quali nessuno è stato eletto, uscire sbattendo la porta è vista come un’ultima spiaggia che ci farà rimanere sempre infamati da una gravissima onta. Pure una conoscente di chi scrive ha deciso di votare la renziana Alessandra Moretti alle regionali in Veneto, nonostante l’ostilità verso Renzi.
Non è la prima volta che ci occupiamo della «sindrome Pd», ma rivolgendoci direttamente a Civati – che ci è parso così alla mano – forse riusciremo ad avere finalmente una risposta.