Crollo Ponte Morandi: è il fallimento dell’Italia Repubblicana

Mentre il numero dei morti accertato dalla Prefettura raggiunge il numero di 39 vittime, tra cui un bambino di 8 anni e due adolescenti di 12 e 13 anni, quando il Ponte Morandi, spezzato e spoglio alla città, è definitivamente entrato nella lista delle opere fallimentari, Autostrade per l’Italia (Atlantia, Benetton), concessionario di ben 2946, 6 km di rete stradale italiana sui 6668 km complessivi, nonché responsabile della sicurezza e della manutenzione ordinaria per il tratto crollato, rappresenta agli occhi della cronaca non soltanto il principale indiziato per il tragico delitto plurimo, per l’ingente danno economico che si profila per il capoluogo ligure, ma soprattutto il principale responsabile dello stato di incuria in cui versa la maggioranza dei tratti stradali italiani, esposti al continuo danneggiamento o, semplicemente, già irrimediabilmente danneggiati. È realmente così?

Potendo accedere alle convenzioni che regolano le concessioni, segrete per legge fino al febbraio scorso, ma oggi disponibili online, si scopre che Autostrade per l’Italia elargisce allo Stato un canone annuo pari al 2,4% dei proventi netti da pedaggio, mentre, stando a quanto contenuto nei bilanci, il guadagno annuo complessivo della società ammonta nel 2017 a 2,4 miliardi. Insiemi a dati positivi si colloca, tuttavia, l’inspiegabile riduzione degli investimenti operativi destinati alle infrastrutture in concessione, calati dai 232 milioni del primo semestre del 2017 ai 197 del primo semestre del 2018.

Soltanto ieri, subito dopo il crollo del Ponte Morandi, quando ancora l’opinione pubblica appariva confusa e non all’estrema ricerca della verità, il Presidente della 6ª Commissione Permanente Finanze del Senato, l’economista e saggista Alberto Bagnai, commentava sul suo profilo twitter con un semplice e icastico: «Austerità».

Il senatore Bagnai da sempre vicino alla dottrina post-keynesiana, si scaglia, in perfetta coesione con ogni componente del Governo, all’attacco delle teorie economiche ordoliberiste attualmente dominanti, simbolo e strumento delle classi sociali attualmente imperanti, che, per mezzo delle politiche di austerità, volte al pareggio di bilancio e al decremento della spesa pubblica, hanno proposto e realizzato nell’arco di un ventennio la quasi totale privatizzazione dei beni pubblici.

Anche la Procura di Genova, che, intanto, nella serata di ieri ha aperto un fascicolo per disastro colposo e omicidio plurimo, attraverso le parole del procuratore capo Francesco Crozzi, annuncia di voler avviare la propria inchiesta con un focus sull’attività di manutenzione svolta da Autostrade per l’Italia.

In attesa delle risposte che la magistratura dovrà fornire, anche in collaborazione con il Governo, già dedito all’apertura di una commissione d’inchiesta governativa, la soluzione più semplice e intuitiva, ossia l’assenza di manutenzione e il mancato investimento in innovazione e ricostruzione dovuto a politiche di austerity, si scontra, tuttavia, con la storia ampia e complessa di un viadotto, come il Ponte Morandi, costruito negli anni del boom economico, della spesa pubblica in progressione e finalizzata alla modernizzazione di un’Italia prospera.

Se, infatti, il colpevole ultimo sembra inequivocabilmente essere Autostrade per l’Italia, gli antichi responsabili della strage vanno rinvenuti tra chi fra il 1963 e il 1967 si impegnò nella costruzione di un’opera ardita, tanto coraggiosa per l’epoca da trasformarsi in pochi anni in un’opera obsoleta. La linea di progettazione seguita dall’ingegner Morandi, replicata unicamente in Venezuela (Maracaibo) e in Libia (Wadi el-Kuf) per i suoi caratteri poco rassicuranti, rappresenta, come espresso nel 2016 dal professor Brencich, in due interviste a Ingegneri.info e a Primo Canale, «il fallimento dell’ingegneria nostrana».

I difetti strutturali, legati ai materiali adoperati, ad errori compiuti in fase di costruzione e alla tecnica brevettata dallo stesso Riccardo Morandi, hanno portato il viadotto a subire negli ultimi 30 anni una cifra spropositata di interventi di manutenzione, finché negli anni’90, quando il tratto presentava un trentennio di vita e non certo un attestato di morte, i lavori di manutenzione raggiunsero un costo pari all’80% delle spese di ricostruzione.

Dinanzi ai nefasti errori di chi ha difeso una banalizzazione delle politiche neo-keynesiane e di chi ha strenuamente risposto con una selvaggia ondata di privatizzazione, si erge oggi una Genova fratturata, spezzata in due. Nelle crepe, nelle macerie, nel rapido logoramento delle nostre infrastrutture, vegeta il riflesso di una penisola travolta da profonde lesioni sociali, sospesa a metà: è il tragico effetto dell’assenza di controllo, di moderazione e prudenza che ha accompagnato l’Italia nell’arco della sua intera storia repubblicana.