Diritto ad una retribuzione proporzionata e salario minimo

L’art 36, comma 1 della Costituzione recita: ‘‘Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
La dottrina e la giurisprudenza sono oggi unanimi nel ritenere che tale norma racchiuda tanto una regola di rango costituzionale, quella sulla retribuzione adeguata, direttamente applicabile dal giudice in sede di contenzioso, quanto di due princìpi: quello di proporzionalità e quello di sufficienza della retribuzione.
Secondo il disegno dei Padri Costituenti, che su questo aspetto fornisce una garanzia senza eguali negli ordinamenti costituzionali dei vari Stati, la retribuzione deve essere sufficiente per assolvere la funzione di garantire ai lavoratori e alle loro famiglie non soltanto la sussistenza, ma anche la possibilità di condurre un’esistenza degna.

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Il principio fondamentale dell’Art. 36. Fonte

La situazione in Italia

A distanza di ben 73 anni dall’entrata in vigore della Carta Costituzionale, il percorso che conduce i lavoratori italiani al pieno riconoscimento del diritto ad una retribuzione proporzionata e adeguata è ancora troppo tortuoso. Cosa ancor più grave, al momento il sistema Stato è in grado di assicurare, con i suoi iter, soltanto uno standard costituzionale di grado minimo a questo riguardo. Il “lavoratore povero” che lamenti di ricevere un salario inadeguato, infatti, può tutt’al più sfidare l’impresa in sede di giudizio, e ottenere, qualora l’esito sia a lui favorevole, una retribuzione pari a circa il 60% dell’ammontare direttamente individuabile sul contratto collettivo di lavoro in cui rientra la sua mansione.

Si tratta di una soluzione pauperistica dal punto di vista retributivo, che peraltro si innesta in uno scenario complessivo desolante dal punto di vista della contrattazione collettiva, in quanto le battaglie sindacali languono e le sigle non si stanno dimostrando in grado d’innescare alcun rialzo. Come attestato dai dati dell’organizzazione internazionale OCSE, infatti, l’Italia è l’unico Stato membro ad aver sofferto, nell’arco del trentennio dal 1990 al 2020, una riduzione percentuale dei salari.
Tale involuzione, pari al 2,9% annuale, traccia un quadro ancora più impietoso se viene paragonata allo sviluppo di Stati come Francia e Germania, dove i livelli salariali medi, già elevati nel 1990, sono cresciuti rispettivamente del 33,7% e del 31,1%.
Perfino la Grecia, gravata da un alto debito pubblico, ha saputo registrare un aumento del 30%, mentre la penultima in classifica, la Spagna, che ha un mercato del lavoro spesso paragonato al nostro, ha prodotto un aumento pari al 6,2%.

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Andamento salari europei a inizio Millennio. Fonte

Se in Italia il dibattito politico e parlamentare è stato per anni connotato dal dominio dell’ordoliberismo e dall’esaltazione quasi mitologica delle politiche di austerity, dalla demonizzazione del reddito di cittadinanza, a Strasburgo, proprio dove l’accetta delle classi medio-basse è stata per la prima volta spuntata, il Parlamento Europeo ha dato il  via libera al progetto di direttiva sul salario minimo lo scorso 12 novembre.
Su impulso primario delle istituzioni europee, e non della Costituzione Italiana, che prima di ogni altra, già nel 1948 aveva posto in primo piano il valore dell’esistenza libera e dignitosa, le aule parlamentari italiane saranno perciò chiamate a confrontarsi con la disperazione della classe lavoratrice povera.
Influenzate dal contesto economico attuale, che vede il capitale con la necessità di guadagnare tempo, le istituzioni europee intendono arginare la frustrazione sociale generata dalle trentennali politiche liberistiche di contrazione della spesa pubblica, problema di cui la classe dirigente italiana non sembra preoccuparsi, preferendo deviare il discorso pubblico sui percettori del reddito di cittadinanza.
A ogni modo, una prima occasione di confronto sul tema salario minimo è stata inaugurata in Commissione Lavoro, dove è in discussione la proposta di legge presentata nella scorsa primavera dalla senatrice del M5S Nunzia Catalfo, ministra del Lavoro nel II Governo Conte, nonché già ideatrice del reddito di cittadinanza.

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Nunzia Catalfo, promotrice del DDL sul salario minimo. Fonte

I tempi sono maturi

L’anno 2021, con la consegna del Premio Nobel all’Economia a David Card, a Joshua Angrist e Guido Imbes, ha dismesso dei cliché meno sensati eppure più resistenti nell’immaginario economico Occidentale: la correlazione tra salario minimo e riduzione del tasso di occupazione, il quale è stato analizzato e totalmente sconfessato dalle verifiche empiriche di Card. L’anno che sta per concludersi, dunque potrebbe diventare un vero e proprio spartiacque per il sistema giuslavoristico italiano. Nonostante le buone notizie, tuttavia, la mera indicazione di un minimo salariale pari a 9 euro all’ora potrebbe non essere sufficiente a garantire il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro di ogni italiano. Occorrerà integrare la misura con una tutela processuale effettiva, agevole, adeguatamente ristoratrice, ma soprattutto avviare una lotta senza quartiere al lavoro sommerso, facendo man mano emergere la platea dei lavoratori in nero, che esercitano senza tutele né diritti, e sono stimati nell’ordine dei 3,4 milioni d’individui.