Dismorfismo corporeo: siamo tutti sulla stessa barca

Di corpi se ne parla sempre: ora con tono lusinghiero, ora con tono denigrante o giudicante e, perché no, anche romantico. Quella per i corpi e per le loro forme è una vera e propria ossessione ed è difficile pensare ad un contesto in cui uno possa dirsi pienamente libero da pensieri orientati in tal senso. Certamente lo è per l’adolescente che, vedendo la propria immagine riflessa, si chiede chi sia quell’estraneo che si trova davanti e che fino al giorno prima non aveva mai visto. Non lo è nemmeno la persona transgender che, in modo più o meno conscio, con il suo corpo ci lotta da sempre e che, per ironia della sorte, deve affidare al giudizio di altri il riconoscimento della propria identità interiore ed esteriore. 

A voler forzare la mano si potrebbe giungere alla triste conclusione che tutti, chi più e chi meno, siano afflitti da quello che in gergo tecnico si definisce dismorfismo corporeo, ovvero la condizione di disagio psicologico provocata dall’insoddisfazione verso il proprio aspetto fisico. Una volta giunti a questa azzardata realizzazione e assumendo come punto di partenza per la suddetta condizione psichica molteplici fattori di natura soggettiva, non rimane che interrogarsi sul modo e le tempistiche in cui si permette che qualcosa di così privato e intimo, quale è un corpo singolo, assuma piuttosto le sembianze di una realtà estremamente pubblica in grado di condizionare i giudizio di valore che l’individuo ha di sé e, al tempo stesso, di dire molto di più sul gruppo che sul singolo cui appartiene.

Se in un mondo ideale vige il principio che «le apparenze non contano», nel nostro le cose stanno diversamente e non avere un corpo abile e bello  per i canoni vigenti può rivelarsi un problema. Gli esempi in questo senso sono infiniti: corpi disabili, neri, grassi, anziani, di donne non depilate e di uomini depilati e chi più ne ha più ne metta. Chi appartiene ad una di queste innumerevoli categorie si trova ad occupare lo spazio in modo diverso rispetto agli altri, cammina con la consapevolezza di star portando a spasso un corpo che deve sempre dimostrare di poter fare più di quanto si pensa sia in grado di fare, di star rappresentando in quel preciso istante in cui sfila tra i passanti un’intera collettività di emarginati e, in qualche modo, di doversi conformare nella sua anormalità alle aspettatievche gli altri hanno su come quel specifico corpo dovrebbe comportarsi. È questo il momento in cui avviene il passaggio dal privato al pubblico.

Parlare di dismorfismo corporeo come di un male sociale è senza dubbio avventato, oltre che poco rispettoso nei confronti di chi questo malessere psichico lo vive quotidianamente, eppure dalla consapevolezza di trovarsi tutti sulla stessa barca qualcosa di utile lo si potrebbe anche trarre. In fin dei conti è la definizione stessa di corpo normale a non portare da nessuna parte perché è proprio su questa, che dovrebbe essere l’origine e la giustificazione per ogni sensazione di inadeguatezza, che manca il consenso. Ma se non c’è consenso allora vuol dire che non esiste nemmeno un corpo normale e che, forse, riappropriarsi e riappacificarsi con il proprio corpo è possibile.