Le forme gravi di Covid-19 e gli autoanticorpi

Uno degli aspetti più particolari e misteriosi dell’azione del virus SARS-CoV-2, e della malattia Covid-19 da esso causata è la distribuzione apparentemente casuale della virulenza dell’infezione.

Fin dagli albori della pandemia, un team internazionale di ricerca ha tentato di far luce sull’ampissimo spettro di gravità dei sintomi, che variano dal contagio asintomatico alla morte per gravi complicanze, solitamente respiratorie. Uno studio apparso lo scorso 19 agosto sulla rivista Science Immunology, basato sul super archivio dei pazienti Covid tenuto dall’Università Milano-Bicocca, ha evidenziato un colpevole biologico ben preciso per l’aggravarsi della malattia in individui precedentemente sani. Si tratta degli autoanticorpi, particolari anticorpi disfunzionali che contrastano l’azione degli interferoni di tipo I, ovvero le prime linee di difesa contro le infezioni che il sistema immunitario produce e utilizza, nell’attesa che l’organismo sviluppi una risposta adattiva. In pratica, tali anticorpi mal funzionanti operano una vera e propria pratica di fuoco amico, sterminando gli interferoni di tipo I e permettendo all’infezione di dilagare rapidamente.

Dallo studio, che ha integrato i risultati di altri due lavori di autunno 2020, a cui ha contribuito anche l’IRCSS San Raffaele, emerge che il 20% dei casi fatali di Covid-19 presi in esame è avvenuto a causa dell’autosabotaggio degli interferoni. Tale rilievo risulta coerente con l’incidenza maggiore della malattia nelle fasce d’età più elevate, in quanto la produzione di autoanticorpi tende ad aumentare con l’età, specialmente oltre i 60 anni, ma può essere svincolata da tale fattore se si possiedono particolari disposizioni genetiche alla loro genesi, come rilevato nel 3,5% dei casi gravi analizzati nella ricerca precedente.

Come sostengono Paolo Bonfanti e Andrea Biondi, rispettivamente professore di Malattie Infettive e di Pediatria presso l’Università Milano-Bicocca, questa scoperta, o meglio, conferma, delle modalità di peggioramento repentino della malattia può avere risvolti clinici potenzialmente assai importanti.

In primo luogo, rilevare la presenza degli anticorpi ostili agli interferoni di tipo I può divenire un’importante pratica di screening, capace di evidenziare la predisposizione degli individui ad aggravarsi una volta infetti. In secondo luogo, può permettere ai soggetti a rischio di ricevere cure tempestive e un monitoraggio clinico più accurato, nonché una vaccinazione preventiva mirata, la quale impatterebbe positivamente anche sulle problematiche relative alla campagna vaccinale, specialmente se dovesse protrarsi oltre la seconda dose. Infine, rimuovere i dubbi circa l’area di criticità dell’avanzamento dell’infezione e circa le sostanze responsabili è importantissimo per poter elaborare metodi di cura più efficaci, magari basandosi proprio sull’integrazione di quegli interferoni di tipo I che vengono danneggiati dagli autoanticorpi, i quali sono infatti già allo studio da parte della comunità medico-scientifica.

In conclusione, le evidenze di questo studio sono un considerevole passo in avanti verso la conoscenza dell’azione del virus SARS-CoV-2 e, di conseguenza, sulle capacità di gestione delle forme gravi d’infezione.