Un’economia contro i poveri, l’India sciopera

Nel 2013, il suolo dell’India era calpestato da almeno 1.252 miliardi di persone, cifra che rende questo paese il secondo più popoloso al mondo.
Sull’India si pensa di sapere e si dicono molte cose. Si sa del suo passato coloniale e di Gandhi; delle caste sfigurate dalla fame e della neocanonizzata Madre Teresa (che comunque, giova ricordarlo, indiana non era); degli attacchi con l’acido e delle mucche sacre. Insomma, una visione che trova il suo orientamento sui due assi cartesiani delle masse povere e disumane, e delle personalità salvifiche e mistiche, concedendosi qua e là qualche condimento dal gusto esotico (quel polpettone chiamato «orientalismo» di cui ha lungamente trattato Edward Said).

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Ovviamente, esiste anche un’India meno caricaturale e molto più consapevole della propria identità e della propria storia. La stessa che il 2 settembre scorso ha deciso di scioperare per 24 ore e sostanzialmente bloccare il paese. Le stime oscillano tra i 100 e i 180 milioni di adesioni (ovvero circa 15% della popolazione totale), ma poco cambia: si può parlare di questo sciopero come di un successo.
Per gli economisti classici, la forte presenza pubblica nei vari settori dell’economia indiana è da sempre un freno al processo di accumulazione e sviluppo, così come la chiusura del paese agli investimenti esteri. Vennero così salutati con soddisfazione gli accordi con l’Fmi per un prestito di 1.5 miliardi di dollari in cambio di riforme strutturali, negli anni ’90. Nel giro di due decenni, il Pil aumentò quattro volte e nel 2012 il tasso di crescita del Pil era del 6%.
Questa grande ondata di sviluppo, però, non ha impattato molto sulle condizioni di vita della maggioranza della popolazione, che ancora oggi vive in una condizione di povertà insopportabile. D’altro canto, il peculiare processo di sviluppo indiano ha prediletto settori di alta tecnologia o comunque di nicchia, che certamente non possono coinvolgere una grande massa di lavoratori. Secondo Jayati Ghosh, economista della Jawaharlal Nehru University di Delhi, questi 25 anni di riforme neoliberali non hanno fatto che peggiorare le cose: «Meno del 4% degli indiani gode di tutele lavorative. Sembra quasi che più che si stiano colpendo i poveri più che la povertà». Ghosh continua affermando come questa tendenza continui e come, ancora oggi, il governo stia spalleggiando i datori di lavoro che ostacolano l’organizzazione sindacale dei dipendenti. A ciò si aggiunga la complessa questione del settore dell’economia informale. Si tratta di un settore che comprende tutti quei lavoratori non organizzati o senza contratto che compiono mansioni di vario genere (come pulizie, trasporti, venditori ambulanti, e così via) che in India rappresentano la maggioranza dei lavoratori e circa la metà del Pil. Questa massa di forza lavoro nascosta e sottopagata è stata, di fatto, il carburante che ha reso l’economia indiana competitiva anche in settori normalmente preclusi a un paese in via di sviluppo, come i servizi. Si dice che questa struttura del mercato del lavoro, che si fonda sull’esclusione dalle attività formali e meglio remunerate la maggioranza della popolazione, sia un’eredità del sistema delle caste o del «radicalismo indù». Secondo altri, si tratta piuttosto di una caratteristica intrinseca a ogni sistema capitalista, e che nei paesi in via di sviluppo ha trovato un terreno estremamente fertile per far crescere in maniera ipertrofica le sue contraddizioni più esplicite.
È in questo contesto che vanno comprese le ragioni del grande sciopero nazionale promosso dalle maggiori dieci sigle sindacali, che ha coinvolto sia il settore pubblico che quello privato. Le rivendicazioni sono riassunte in dodici punti e si raccolgono attorno alla lotta contro la politica «Lpg» di cui, secondo i sindacati, il presidente Modi si fa promotore: liberalization, privatization and globalization. Si chiede un aumento della pensione e del salario minimi, il blocco degli investimenti esteri del settore dei trasporti, una previdenza sociale universale, che comprenda anche i lavoratori informali.