Giorgia e i problemi degli italiani

L’esito delle ultime elezioni regionali in Umbria, oltre ad aver confermato la performante solidità della coalizione di centrodestra, ha anche recato con sé il primo sorprendente guizzo di Fratelli d’Italia, il partito trainato da Giorgia Meloni che, permanendo fermamente ancorato alla collaborazione elettorale con Berlusconi e Salvini, è riuscito a superare di mezzo punto lo scoglio del 10%. La leader che punta a combattere l’immigrazione illegale con la costruzione di muri, con l’esecuzione di blocchi navali, con il perentorio e definito stop all’ingresso di chi fugge per fame e per caldo, manda, così, un segnale chiaro agli alleati: senza il suo apporto il raggiungimento della maggioranza assoluta in chiave nazionale è sempre più improbabile per il centrodestra unito.

Il percorso politico di Giorgia Meloni, giunto alla completa maturazione nel 2012 con la fondazione di FdI e oggi sottoposto ad una mirabile fase di ascesa, affonda, tuttavia, le proprie origini nella lontana partecipazione tra il 1992 e il 1995 al Movimento Sociale Italiano e poi, sul finire degli anni ‘90 e gli inizi del nuovo millennio, all’esercizio di dirigente nazionale presso Azione Giovani, il movimento giovanile che fu di cristallina adesione alle finalità politiche di Alleanza Nazionale, il partito di Gianfranco Fini che si offrì da stampella per Forza Italia nel secondo, nel terzo e nel quarto Governo Berlusconi, prima di confluire nel 2009 in seno al Popolo della Libertà. E fu proprio in quanto membro di AN che Giorgia Meloni fece capolino nel 2006, a soli 29 anni, alla Camera dei Deputati, dove avrebbe svolto tra il 2006 e il 2008 anche il ruolo di vicepresidente. Di lì in avanti, con il trionfo del centrodestra riunito sotto la sigla del PdL, il suo nome avrebbe trovato posto perfino nella rosa dei ministri dell’ultimo governo a guida berlusconiana, dove diresse quale ministra più giovane della Repubblica il dicastero delle Politiche Giovanili.

Questo è il quadro riassuntivo della storia politica che appartiene ad una dei protagonisti del centrodestra italiano, quali sono, però, i dati significativi che da ciò possiamo trarre?
In primo luogo emerge una notazione incontrovertibile, ovvero che i volti fumanti e trasudanti sapore di novità dei più recenti ribaltatori della scena politica italiana, da Renzi a Salvini, passando per la Meloni, costituiscono in realtà i volti di chi ha impiegato un ventennio per sfarsi spazio nelle gerarchie dei vecchi partiti. Oggi chi si promuove di guidare una forza politica sotto il vessillo dell’aggressione ai problemi dello Stivale, dunque, agisce pur sempre quale diretto successore di un leader sotto il quale ha avallato i provvedimenti che hanno aperto alle grandi questioni di questo decennio politico (2008-2019), dalle politiche migratorie alle disposizioni pensionistiche, dalle revisioni costituzionali in materia di politica di bilancio alla scelte di politica estera. Avviene, pertanto, che Giorgia Meloni, la dama che ambiva ad affondare la nave Sea Watch, abbia fatto parte per anni della classe dirigente che ha sostenuto nel 2003 la ratificazione della Convenzione di Dublino, nel 2004 la ratificazione di due emendamenti alle convenzioni Sar e Solas, disposizioni attraverso le quali l’Italia è divenuta di fatto il Paese europeo di primo approdo e responsabile delle richieste d’asilo. Giorgia Meloni è stata membro della classe dirigente che ha redatto la Legge Bossi-Fini del 2002, il provvedimento che ha innalzato, in concomitanza con l’aumento degli sbarchi, il numero degli irregolari, che ha reso più complessa la procedura dei rimpatri, da realizzare con accompagnamento fino alla frontiera e in presenza di previa identificazione e di accordi bilaterali con il Paese d’origine, che ha abrogato l’istituto dello sponsor, che permetteva di accedere legalmente al territorio italiano con un visto utile ai fini della ricerca di un lavoro mediante le garanzie economiche offerte da un parente, da un conoscente o da un altro garante, che ha annullato la facoltà per i lavoratori stranieri di riportare in patria i contributi previdenziali versati, un incentivo alla regolarità delle coperture previdenziali, al lavoro regolare e al rientro definitivo.

Giorgia Meloni ha dichiarato in plurime occasioni che la Riforma Fornero della legislazione pensionistica rappresenta una legge mal fatta, ricca di problemi, indiscutibilmente da rivedere, ma resta pur sempre la parlamentare che nel 2012, nelle vesti di deputata del Popolo della Libertà, votò la Riforma Fornero. Giorgia Meloni, celebrata come leader di una forza politica sovranista, in occasione della formazione del secondo governo Conte, ha invocato il ritorno al voto per la nascita di un governo sovranista, ma, nel 2012 dimorava nelle file del gruppo parlamentare che si schierò favorevolmente al principio dell’equilibrio di bilancio. Quale lotta condusse l’onorevole Meloni al fine di impedire la cessione di un’imponente fetta di sovranità economica? Fu assente al momento della votazione finale. E ancora Giorgia Meloni, la leader dagli accesi connotati nazionalisti, non può oggi che esprimere il proprio dissenso in merito alla gestione della guerra civile libica condotta dal governo francese di Macron e invita l’attuale governo italiano ad adottare misure forti nello scontro fra i due paesi e nella difesa dei nostri interessi nazionali, ma proprio Giorgia Meloni, nei lontani giorni in cui sorgeva la primavera araba, votò a favore dell’offensiva italiana in Libia, proposta da una mozione del forzista Fabrizio Cicchitto.
Crisi libica, migranti irregolari, esodati, sono i possenti mulini a vento contro i quali Giorgia Meloni dichiara di voler combattere. Peccato che quelle creature siano nate con la compartecipazione del suo grembo.