Gli europeisti non possono festeggiare il Primo Maggio: ecco perché

Cari connazionali folgorati dalle istituzioni dell’Unione Europea, vi spieghiamo perché il Primo Maggio dovreste evitare, per coerenza, di presentarvi nelle piazze a manifestare per il rispetto dei diritti dei lavoratori.

Pare superfluo rammentare l’esordio della Costituzione ai devoti alla dea di Bruxelles, in quanto anche loro sono avvezzi alla sua citazione, specialmente quando si scagliano contro misure che definiscono di tipo assistenziale. Tuttavia, non nuoce mai far risuonare le parole che i nostri padri costituenti hanno ritenuto degne di essere incastonate nel primo articolo: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Il lavoro è visto come mezzo per far fiorire la comunità, un nobile strumento per intrecciare le trame di un popolo che governa e provvede a se stesso con la fatica quotidiana. Se l’esistenza della Repubblica è connessa al lavoro significa che l’utilità di questo si riversa non solo sui singoli, ma sui consociati tutti che ne traggono beneficio.

Questo tratto sociale che già spicca attraverso il breve comma iniziale viene in qualche modo ripreso dall’articolo 42: «La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». Sebbene esso non si riferisca nello specifico al mondo lavorativo, il suo dettame coinvolge il concetto dell’impresa privata, la quale svolge un’attività economica che non può esimersi dal ricoprire una «funzione sociale». La missione imprenditoriale, secondo la Costituzione, non si esaurisce nella ricerca di massimizzare il profitto, ma deve preoccuparsi di non collidere con gli interessi della collettività, come, ad esempio, quello ambientale e, elemento non di poco conto, tutelare quelli dei dipendenti di cui l’impresa si serve per operare. Va da sé, dunque, rimarcare il legame che scaturisce tra l’impresa e il territorio in cui essa si sviluppa e la connessione sinergica tra il titolare che offre lavoro e i subordinati che elargiscono la loro indispensabile manodopera.

Il lavoro, ricollegandoci all’articolo 1, è un dovere, dal momento che chi intende non adoperarsi si pone fuori dal perimetro del nostro patto sociale; tuttavia, viene sancito dall’articolo 4, esso è tutelato anche nella veste di diritto soggettivo: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto».
È ribadita l’importanza dell’impegno lavorativo come fonte di realizzazione personale, prolungamento dell’individuo che riconosce se stesso nell’opera che compie; essendo in grado di badare a se stesso e di contribuire al benessere della propria famiglia, egli respira dignità e stima di sé. Altro aspetto da sottolineare è il ruolo dello Stato, il quale si sobbarca il compito di assicurare che il cittadino goda effettivamente di quanto è previsto sulla carta, che non è circoscritto all’impiego in sé, ma alle condizioni a cui il lavoratore è chiamato a sottostare. Su questo punto, l’articolo 36 è lapidario: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge». La remunerazione congrua allo sforzo profuso, così come un ambiente lavorativo che non leda l’integrità fisica e psichica del dipendente, sono ritenuti imprescindibili: lavorare non è concessione di energia a qualcuno che ne beneficia a discapito di chi la rende disponibile, ma uno strumento per poter vivere senza alcuna sopraffazione, in comunione con i propri cari.

Stando a quanto messo nero su bianco dalla nostra legge suprema, la disoccupazione dovrebbe rasentare lo zero, non dovremmo conoscere salari inconsistenti che non permettono di rendersi indipendenti, lo sfruttamento non apparterrebbe alla nostra realtà. Tuttavia, quando si intraprende una riflessione a proposito del nostro ordinamento giuridico è necessario considerare anche quello europeo, che esso ha abbracciato ex articolo 117 Cost.

Avviamoci in questo breve percorso di conoscenza richiamando l’Articolo 45 TFUE: «La libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione è assicurata. Essa implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro». Siamo abituati al cuore che scoppia di letizia quando la parola «libertà», o qualche suo derivato, riecheggia; spontaneamente, siamo portati ad accettare di buon grado ciò che a essa è accostato. Non facciamoci ingannare! Conformemente a questa disposizione, il cittadino lavoratore è svincolato dalla comunità in cui è inserito e al cui benessere, interpretando la Costituzione, dovrebbe contribuire attraverso la sua opera. Non viene riconosciuta la connessione tra colui che lavora e il suo popolo, ma viene esaltata la circolazione della manovalanza, là dove è richiesta, là dove serve, là dove costa meno. Il lavoratore non è, dunque, tutelato come essere umano in un contesto sociale, ma come mero prestatore di manodopera da poter collocare altrove per un fine economico. Si potrebbe ribattere che si tratta di libertà e non di imposizione, poiché solo chi è desideroso di un impiego in un altro stato membro è coinvolto da quanto presentato.
Purtroppo, non è così e lo comprendiamo attraverso la citazione di almeno tre articoli, sempre estratti dal Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea.

L’Articolo 49: «Nel quadro delle disposizioni che seguono, le restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro vengono vietate. Tale divieto si estende altresì alle restrizioni relative all’apertura di agenzie, succursali o filiali, da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti sul territorio di un altro Stato membro.
La libertà di stabilimento importa l’accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell’articolo 54, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini, fatte salve le disposizioni del capo relativo ai capitali».
L’Articolo 54: «Le società costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi la sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro di attività principale all’interno dell’Unione, sono equiparate, ai fini dell’applicazione delle disposizioni del presente capo, alle persone fisiche aventi la cittadinanza degli Stati membri.
Per società si intendono le società di diritto civile o di diritto commerciale, ivi comprese le società cooperative, e le altre persone giuridiche contemplate dal diritto pubblico o privato, ad eccezione delle società che non si prefiggono scopi di lucro».
L’articolo 63: «Nell’ambito delle disposizioni previste dal presente capo sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi».
È chiara la volontà di garanzia dell’attività economica profittevole dei privati all’interno dell’Unione Europea, permettendo al denaro e ai mezzi di produzione di abbandonare i confini nazionali entro i quali erano originariamente collocati, concedendo così agli imprenditori di espandere i loro affari oppure di trasferirli altrove. Non sono trascurabili le conseguenze sui lavoratori subordinati: come vengono toccati dalle delocalizzazioni? In linea teorica, il loro impiego è preservato, dato che nessuna limitazione è esercitata al loro spostamento: piena libertà di iniziare una nuova vita in Romania, lasciando figli e coniuge distanti migliaia di chilometri. Accantonando quest’amara ironia, appare evidente che di questa liberalizzazione beneficiano solo i titolari delle imprese, i quali possono andare a produrre e ad assumere nuovi operai e impiegati in un paese dove le spese per le retribuzioni e il carico fiscale sono più contenute.
Inoltre, non va dimenticato che l’abbattimento delle barriere alla libera circolazione concede l’arrivo presso il nostro Paese di lavoratori comunitari, solitamente dell’Est, che nella loro terra natia non sguazzano nell’oro e tendono dunque ad accettare condizioni poco generose ai nostri occhi, ma vantaggiose ai loro: questo genera una competizione a ribasso.

Lo Stato italiano quali contromisure può mettere in atto per contrastare, o, almeno, attenuare quest’incisiva elusione della funzione sociale della proprietà privata? Il suo campo d’azione, apparentemente molto ampio da quanto si evince dalla Costituzione, è al contrario sempre più sbiadito. Le ragioni sono essenzialmente due: l’Unione Europea che si oppone strenuamente agli aiuti di stato, limitandoli a poche ipotesi, ex articolo 107 TFUE; il sacrificio della spesa pubblica comportato dall’adozione del pareggio di bilancio, ex. articolo 81 Cost.
La compressione della capacità di spesa dello Stato si ripercuote, per forza, anche sull’esecuzione dell’art. 4 Cost., il quale implica l’azione statale per stimolare il mercato del lavoro e farlo crescere, assicurando a tutti un impiego.

In ultimo, vediamo l’azione del sistema Euro come si scaglia contro gli stipendi dei lavoratori, ben lontani dalla disciplina dell’art. 36 Cost. La Banca Centrale Europea stabilisce come proprio obiettivo la stabilità dei prezzi e il contenimento dell’inflazione. Se svalutare non è più concesso, allora l’unica mossa per rimanere competitivi è rivalersi sulle buste paga dei lavoratori. Ed è proprio questo che accade: l’Istat attesta che i salari degli italiani sono sostanzialmente fermi a vent’anni fa, avvicinandosi a quelli dell’Europa dell’Est.

Ancora convinti che possano convivere la permanenza nell’Ue e la tutela dei lavoratori?