Il linguaggio dei politici influenza i comportamenti sociali

Le scritte razziste apparse il mese scorso fuori dall’abitazione del giovane Bakary Dandio Pozzi nel milanese sono state l’ennesima dimostrazione di quel clima di intolleranza che ormai sembra rappresentare la realtà sociale e civile del Paese. Negli stessi giorni la giornalista e conduttrice di «Otto e mezzo», Lilli Gruber, propone nel corso del suo programma una riflessione su quanto la diffusione di sentimenti quali il razzismo possa essere, almeno in parte, imputati ad un cambiamento nel linguaggio dei maggiori esponenti della classe politica italiana, primo fra tutti Matteo Salvini. Se una volta i comizi e interventi dei politici assumevano toni didascalici pompati da un lessico astruso e settoriale, talora al limite del comprensibile, oggi la situazione sembra essersi invertita non solo nel registro ma anche e soprattutto nel ruolo attribuito, nell’ambito della comunicazione di massa, alla lingua parlata come veicolo di ideali e norme di comportamento. 

Il ripetuto utilizzo di un termine brutale come «ruspa» in riferimento alla soluzione proposta ai più disparati problemi di ordine pubblico e non, da parte del Ministro dell’Interno, rappresenta un esempio estremo e insieme funzionale dello stretto legame tra linguaggio e realtà fattuale. Da un lato, è evidente come non si possa attribuire al solo abbassamento del registro comunicativo politico la colpa per le dilaganti discriminazioni, di cui quella a Bakary è solo l’ultima dimostrazione, dall’altro, sarebbe illogico affermare il contrario. Che lo si voglia accettare o meno, la nostra percezione della realtà è costantemente plasmata dalle parole ed espressioni con cui veniamo a contatto e se ci viene ripetuto che gli stranieri sono brutti e cattivi, la reazione istintiva è quella di crederci. Nel momento in cui si sostiene che la crisi economica è «colpa dell’Europa», che gli sbarchi dei migranti in Italia lo sono e come questi numerose altre istanze sociali, si sta proponendo una visione spaventosamente restrittiva di problemi la cui risoluzione non può essere affidata a qualche superficiale tweet o affermazione da bar.

Sempre più colloquiale e approssimativa, la lingua dei politici sembra attingere ora più che mai al lessico della quotidianità perdendo in autorevolezza e dignità e sostituendo a queste i tratti più volgari e schietti dell’italiano parlato. Al politicamente corretto tanto ricercato dalle personalità di spicco della Prima Repubblica si sta progressivamente sostituendo quello che potrebbe essere definito come politicamente scorretto. «Le parole ormai mirano a colpire l’istinto degli elettori e i loro sentimenti. Le argomentazioni sono lasciate da parte per puntare dritto alle emozioni» scrive il linguista Giuseppe Antonelli nel suo libro «Volgare eloquenza». Ciò che più preoccupa di questa radicale propensione alle emozioni, di per sé connaturata alla comunicazione di massa, è l’atteggiamento sempre più semplicistico e grossolano con cui si identifica oramai l’approccio della classe politica italiana alla realtà del Paese.

Mai come oggi, in un momento storico in cui anche le più frivole delle questioni quotidiane sembrano necessitare dell’opinione della classe politica, sviluppare senso critico può rappresentare un’ancora di salvezza. Riconoscere il potere delle parole, al di là delle frasi fatte, è quanto mai indispensabile per discernere l’esistenza o meno di un legame causa-effetto tra i messaggi che ci vengono comunicati e la realtà di cui abbiamo esperienza.