Il M5S attacca la stampa, ma è una moda di chi è al potere

Partiamo con una premessa: Virginia Raggi da due anni e mezzo è forse la politica più attaccata. Alcune volte le critiche sono sensate e motivate, altre volte del tutto pretestuose. Su di lei si sono fatti degli scoop (vedi quello di Marco Lillo sul Fatto poco prima del ballottaggio che ha portato la Raggi al Campidoglio) ma anche si sono diffuse «notizie» senza fondamento. Un esempio: sull’Unità, durante la campagna elettorale per le comunali di Roma nel 2016, si pubblica un frame del video Meno male che Silvio c’è (inno del PdL) in cui apparirebbe proprio la futura sindaca. Falso, ça va sans dire. Scoperto l’errore, l’allora direttore Erasmo D’Angelis non rettificò perché «questo è giornalismo 2.0».

Fatta questa doverosa premessa, le parole con cui il vicepremier, nonché ministro, Luigi Di Maio ha commentato l’assoluzione di Virginia Raggi sono sbalorditive: «Il peggio in questa vicenda lo hanno dato la stragrande maggioranza di quelli che si autodefiniscono ancora giornalisti, ma che sono solo degli infimi sciacalli, che ogni giorno per due anni, con le loro ridicole insinuazioni, hanno provato a convincere il Movimento a scaricare la Raggi». Se Alessandro Di Battista, ufficialmente privato cittadino, che definisce i giornalisti «pennivendoli» e «puttane» fa impressione ma resta nell’alveo della libertà d’opinione di chi non ricopre cariche pubbliche, l’attacco generalizzato di Di Maio è fuori luogo, per usare un eufemismo. Per essere più precisi: è inopportuno sia nel contenuto sia nelle modalità.

Un vicepremier, un uomo di Stato, non può lasciarsi andare a un attacco a un’intera categoria: la legge – grazie a Dio – fornisce al cittadino tutti gli strumenti per difendersi dagli eccessi e dalle falsità della stampa. Si sta parlando di diritti di replica, di querele e di richieste di danni. Se anche Di Maio avesse voluto denunciare pubblicamente un malcostume di una certa stampa nei confronti del Movimento 5 Stelle e in particolare di Virginia Raggi, avrebbe dovuto farlo elencando nomi, cognomi, articoli e relative prove a smentita delle tesi di quegli articoli. Efficacia e precisione sono una la conseguenza dell’altra. L’effetto di questa generalizzazione che per sua natura è assurda e immotivata è che ora l’opinione pubblica guarda il dito (lo sconsiderato attacco di Di Maio) e perde di vista la luna (chi dai giornali ha davvero attaccato in modo pretestuoso Virginia Raggi e il M5S).

Chi scrive si indigna perché, pur da umile «praticante», non vuole finire nemmeno per sbaglio nel calderone degli «infimi sciacalli», ma parte delle opposizioni non è nelle condizioni di indignarsi. Non può farlo il Pd, che ha avuto un segretario-presidente del Consiglio che ha storpiato il nome di un giornale in «Il Falso Quotidiano» e alla Leopolda di alcuni anni fa ha messo alla berlina le prime pagine del Fatto, del Giornale e di Libero. Al tempo non ha detto granché su Renzi che attaccava chi osava criticarlo. E non può indignarsi neppure Berlusconi, autore dell’editto bulgaro e, tra l’altro, di esternazioni come «I vostri articoli usano frasi fra virgolette di fonte anonima. In Italia c’è un regime, sì, cari direttori: i dittatori siete voi» oppure «Bisognerebbe fare uno sciopero dei lettori per insegnare ai nostri giornali a non prendere in giro i lettori. Raccontano solo frottole, la loro disinformazione è una ferita sociale. E io sono una loro vittima».

La situazione, direbbe Ennio Flaiano, continua a essere grave ma non seria: un ministro, nonché vicepremier e capo politico del movimento di maggioranza, compie un clamoroso autogol e le opposizioni – almeno a rigor di logica – non sono nelle condizioni di ribattere, perché sono le prime ad aver attaccato la stampa quando c’erano loro al potere. Nemmeno nella più fantasiosa commedia dell’assurdo. Chapeau.