Il Movimento 5 Stelle naviga a vista: Conte unico punto fermo

Fino a poco tempo fa, in molti, si chiedevano cosa avrebbe fatto il Movimento 5 Stelle una volta divenuto grande. La responsabilità derivata dal quasi 33% alle elezioni del 2018, non essendo stata raggiunta quella insperata maggioranza semplice che gli avrebbe consegnato la maggioranza dei seggi, ha pesato sulle successive scelte.

Ad oggi, si può dire che il Movimento naviga a vista. Prima che dalle diverse alleanze di Governo, strette con più partiti che hanno programmi in buona parte diversi l’uno dall’altro, il destino del partito del «tutti a casa» è stato (e sarà in futuro) deciso dalle sue regole interne. Durante la campagna elettorale il candidato in pectore Luigi Di Maio era stato chiaro, dicendo che la forza politica da lui guidata avrebbe dialogato con chi ci sarebbe stato, ponendo come base i punti imprescindibili del programma a 5 stelle. Gli alleati post elezioni, però, si son dimostrati ben più esperti e, sfruttando in parte la comunicazione e in parte il «potere di ricatto» che hanno le minoranze di Governo, li hanno letteralmente surclassati. Se uniamo le promesse-slogan rimaste tali, come l’interruzione del Tap o, durante il Conte I, la revoca delle concessioni ad Autostrade, è facile capire la perdita di credibilità agli occhi dell’elettorato.

Cosa farà oggi il Movimento, in questa situazione surreale, è ancora tutto da vedere. Con un capo politico reggente, identificato nella figura di Vito Crimi da oltre un anno, gli Stati Generali di novembre non hanno dato lo sprint sperato. Il 9/10 febbraio è prevista una votazione che interrogherà gli iscritti sul superamento della figura del capo politico, che dovrebbe essere sostituito con un direttivo formato da cinque membri. Nel mezzo, però, c’è una crisi di governo da gestire: Di Maio, che tuttora sembra avere più autorevolezza di Crimi sia tra i parlamentari che tra gli iscritti, continua ad arroccarsi intorno a Conte, nonostante le dimissioni di stamattina, insieme agli altri rappresentanti della compagine di Governo, definendo impensabile un ritorno al dialogo con Renzi. Quest’ultimo non è comunque da escludere, anche viste le giravolte dell’estate 2019, prima di stabilire un governo con il Partito Democratico, ma rimane da capire se la minaccia del voto sia reale o se si tratti solo di strategia.

Esclusa la strada dei «costruttori», rimangono in pochi a credere possibili le elezioni: il crollo del consenso del Movimento e di Forza Italia, rispetto alle elezioni politiche, e il taglio dei parlamentari che entrerà in vigore con il nuovo Parlamento, suggeriscono che il voto non conviene praticamente a nessuno se non a Fratelli d’Italia. Vista la difficoltà nel creare un Conte Ter, soprattutto se si vogliono coinvolgere nuovi partiti per allargare la maggioranza, con un importante rimpasto di Governo, i 5 stelle potrebbero scaricare alcuni propri ministri, se non addirittura lo stesso Presidente del Consiglio, per appoggiare un Governo di larghe coalizioni. Il Quirinale chiede, giustamente, che si faccia in fretta e ricorda che, oltre alla gestione delle prime fasi del Recovery Fund e della campagna di vaccinazione di massa, a luglio inizierà la transizione del semestre bianco, che precede l’elezione del Presidente della Repubblica.

Uno dei pochi punti fermi di cui si può fregiare il Movimento è aver portato Conte, che attualmente è il politico più apprezzato secondo i sondaggi, alla guida del Governo. La gestione della crisi interna al partito si lega così indissolubilmente alla gestione del Paese e la partita si gioca tutta sul fatto che il terzo incarico vada in porto: perdendo lui, la riorganizzazione diventerebbe ancora più difficile.