La ripartenza del calcio: una questione di bilancio

In tempo di quarantena, ingressi contingentati, risposte economiche tardive ed evoluzioni psicologiche nell’approccio al mondo, è sicuramente di secondaria importanza approcciare il tema del calcio. Tuttavia, i vertici del movimento non perdono occasione per sottolineare la necessità di ripartire, tanto a livello nazionale quanto europeo.

L’UEFA ha le idee chiarissime: Champions League ed Europa devono terminare, garantendo la massima sicurezza alle squadre partecipanti, a quanto dichiarano. Il piano sarebbe di comprimere le due competizioni in una sessione intensiva ad agosto e auspicare la ripresa dei campionati nazionali a giugno. Il segnale, fin dal primo giorno, è chiaro: the show must go on, del resto che rischi può comportare uno sport di contatto? Dopo averci rimesso Euro 2020, evidentemente, le fauci dei diritti TV da onorare si sono fatte fameliche, disposte anche a consumare carne infetta.

Il primo a mettersi di traverso (a parte le federazioni minori di Svizzera e Belgio, che hanno sospeso e di fatto annullato la stagione a inizio lockdown) è stato il presidente francese Macron, che oggi dichiara terminata la stagione del campionato francese, invitando il resto dei campionati maggiori a fare lo stesso. Da un lato si evince un certo grado di quella vetusta qualità chiamata responsabilità politica, dall’altro una ben più chiara prudenza dovuta alla reminescenza di fatti come la folle notte di festeggiamenti in zona Parc des Princes a contagio già arcinoto. Nonostante la partita fosse disputata a porte chiuse, migliaia di tifosi si sono ritrovati nelle strade della capitale in barba a ogni raccomandazione e disposizione di sicurezza. Il calcio sarà anche un’attività economica dai risvolti importanti e, sempre più retoricamente, lo sport più bello e rappresentativo d’Europa, ma evidentemente, non vale la pena di militarizzare un quartiere per permettere a due squadre di contagiarsi in uno stadio vuoto.

Lo capirebbe anche un bambino, ma non un presidente FIGC o la dirigenza di alcuni club italiani. Gravina, dopo aver annunciato con grande dolore, come se si trattasse di seppellire un eroe civile, di aver cancellato una ventina di campionati giovanili e semiprofessionistici, dichiara apertamente che non firmerà mai la sospensione della Serie A. Non si oppone, ma può accettare lo stop del campionato soltanto scaricando la responsabilità politiche, economiche e finanche legali sul governo. Del resto, in seguito al ridicolo valzer delle partite a porte aperte, anzi chiuse, anzi rinviate di una settimana, anzi di un mese, anzi sentiamo cosa ne pensano i club, anzi facciamo litigare i club, anzi incontriamoci e vediamo se incastrare due date senza consultare mezzo virologo a riguardo, è stato proprio l’esecutivo a bloccare una federazione non in grado esercitare la minima autocoscienza, nonostante i lauti stipendi di chi è chiamato a guidarla. Purtroppo per loro, però, quando si tratta di questioni sanitarie i fatti e le responsabilità non sono mascherabili: già il 29 febbraio scorso la Juventus Under 23 era stata messa in quarantena in seguito alla positività di alcuni giocatori della Pianese, da loro recentemente affrontata. Peccato che la squadra bianconera si allenasse regolarmente insieme ai senior, che invece ha continuato l’attività fino al 9 marzo. Risultato? Chiedete a Rugani, Matuidi e Dybala.

A fronte dell’attuale situazione, il ministro per lo sport Spadafora ha dichiarato che i presidenti dovrebbero pensare alla prossima stagione, in quanto l’ultima data utile per la ripresa della competizione, il 14 giugno, quasi sicuramente non darà alcuna garanzia. Risultato? Sono partite le contestazioni da parte di alcun club, inneggiando allo stralcio di accordi mai raggiunti e citando protocolli di 25 pagine che comprendevano una valanga di tamponi, certamente più utili per mappare le condizioni sanitarie di lavoratori produttivi oppure operatori sanitari. Il calcio sarà anche un grande strumento di intrattenimento, ma se proprio bisogna scegliere tra panem et circenses, meglio il panem. Almeno ai circenses rimarrà un pubblico in futuro.

La domanda sorge spontanea: ma sono stupidi? Non proprio. Il problema alla base dell’ottusità non è una percezione errata della pandemia, nè un’irrefrenabile passione sportiva, ma una mera questione economica. I club di serie A che hanno chiuso lo scorso anno fiscale in attivo sono soltanto 3 e i mancati ricavi potrebbero dare il colpo di grazia a molti di essi. In conclusione, il dibattito sussiste soltanto perchè, secondo i pallonari, prima del diritto alla salute pubblica e di quello allo sport esercitato in condizioni di sicurezza viene quello della salute dei loro bilanci.

Falliranno dei club? Succede ogni anno e al di là di ciò è il capitalismo, bellezza. Se un’azienda non ha le riserve per fronteggiare una crisi ci lascia le penne, giusto o sbagliato che sia. Ci sarà un ridimensionamento del mercato calcistico? Ben venga per gli appassionati che ancora sperano che il calcio torni ad essere uno sport anche nelle priorità di chi lo dirige.