La storia di Hikma: incoraggiare l’immigrazione non può essere la via

L’ennesima emergenza. Una sussegue l’altra, uniformandoci in una perpetua condizione straordinaria nella quale non può esserci spazio e tempo per soluzioni che non diano un effetto immediato. Si fa riferimento a quella che vede al centro dell’attenzione la nave della organizzazione non governativa spagnola Proactiva Open Arms. Questa è posizionata, da ormai 19 giorni («di sequestro», affermano i membri dell’equipaggio), a circa un miglio dall’isola di Lampedusa. Sono presenti a bordo un centinaio di profughi. Alcuni sono scesi nei giorni scorsi poiché il loro stato di salute non era compatibile con una prolungata permanenza in mare; altri, disperati dall’estenuante esperienza, in queste ore si stanno gettando in acqua, sperando di arrivare a nuoto fino alla costa oppure che la Guardia Costiera li accolga sui suoi mezzi e faccia loro raggiungere la terraferma, ciò che effettivamente è avvenuto.

Tra le persone a cui è stato concesso di lasciare l’imbarcazione figura una giovane che ha, in seguito, rilasciato un’intervista pubblicata da più quotidiani, come La Sicilia e Il Sole 24 ore. La 18enne si chiama Hikma ed è originaria dell’Etiopia, terra che ha lasciato per tentare l’approdo in Europa, passando, come larga parte di chi condivide la sua sorte, dalla Libia. Lì, denuncia al cronista che l’ha incontrata presso l’hotel dove è stata sistemata insieme alla sorella, è stata vittima di pesanti sevizie che l’hanno posta a dura prova fisica e psicologica. Questo trattamento disumano è perdurato, ricorda, per un anno e quattro mesi, dopodiché i suoi aguzzini l’hanno costretta a sborsare l’equivalente di circa 3500 euro per potere essere finalmente condotta nel tanto sognato continente europeo.

Questa storia può rappresentare uno spunto di riflessione.

Prendiamo per vero ciò che la ragazza ha riportato. Dopotutto, non abbiamo prove per confutare le violenze che dichiara di aver dovuto patire per un tempo piuttosto lungo. Certo, però, che qualcosa di bizzarro salta all’occhio: come ha potuto recuperare quella somma di denaro, peraltro cospicua per chi sta emigrando, durante il periodo di prigionia libica? È un interrogativo più che lecito. Probabilmente, anche la sua famiglia rimasta in patria è stata ricattata e si è adoperata per farle pervenire tutti quei soldi per affrancarsi. Altrimenti, come potrebbe aver fatto? Questo non lo spiega. Comunque, noi vogliamo pensare che sia tutto vero, perché, appunto, nulla smentisce la sua versione e quella di tanti altri come lei. Ammettere l’orrore dei lager libici, tuttavia, non può essere argomento per chi spalleggia l’accoglienza sconfinata. Anzi, deve essere motivo di sdegno verso i traffici di esseri umani e di convinzione che la problematica migratoria abbia necessità di una gestione completamente differente da quella attuale. Non possiamo permetterci di strizzare l’occhio a certi mostri assettati dei risparmi degli africani.

Altro elemento su cui soffermarsi. La ragazza è etiope. L’ha ammesso lei stessa. Perché questo ha il peso di una confessione? Lo sappiamo: la nazionalità di chi, senza alcun permesso, fa il suo ingresso in Italia, è fondamentale per definire il suo destino presso il nostro Paese. Se la loro cittadinanza corrisponde a quella di uno stato dove i diritti umani non sono garantiti, essi si vedranno accordare una qualche forma di protezione internazionale, altrimenti, il loro soggiorno qui si rivelerà irregolare e dovranno essere rimpatriati, sempre che siano stipulati accordi bilaterali coi paesi d’origine e vengano stanziati i fondi sufficienti. Ebbene, la giovane, che desidera proseguire gli studi a Roma, è etiope, dunque difficilmente le verrà riconosciuto qualche titolo per trattenersi in terra italiana. L’Etiopia stessa, infatti, ospita rifugiati (è stata lodata dall’Onu per la sua azione in questo campo). Di conseguenza, non può che essere considerato uno stato piuttosto sicuro e attento alle libertà personali.

Così, Hikma, che onestamente non ha celato il suo passaporto, fa molto probabilmente parte della schiera di immigrati cosiddetti economici. Forse tutto quello che ha patito non servirà a nulla. Qui ci imbattiamo in un problema: l’informazione che manca a chi parte. Fortunatamente esistono volontari che, in Africa, si occupano di spiegare, nei villaggi, quali sono i rischi delle partenze, ma ancora troppi non vengono raggiunti da queste indicazioni: ecco che si abbandonano a criminali che lucrano sulla loro voglia di migliorare la loro esistenza e vengono abbindolati da un’idea di benessere europeo che non è veritiera. Occorre far sapere loro che li aspetta, se riescono a giungere vivi da noi, sfruttamento, precarietà, povertà, delinquenza, perché solo questo può offrire uno stato in austerità; bisogna che siano edotti del fatto che solo se appartengono a uno stato dittatoriale o in guerra potranno essere ospitati, qualora non possedessero un permesso di lavoro.

Tanto, faticoso, lavoro va fatto per aiutare questi uomini e donne sfortunati, ma incoraggiare le migrazioni che alimentano violenze, morti e profitto criminale no, non può essere la via. I fratelli di Hikma non devono essere illusi e finire in mani delinquenti, ma soprattutto devono potersi formare dove sono nati, lavorare e rendere più felice la loro Africa. Quanto è facile pensare questo, magari privo d’utilità, ma, se invece di tifare per le migrazioni e di reputarle la panacea dei mali africani, si manifestasse per la libertà del popolo nero, non sarebbe più proficuo per queste genti e meno vantaggioso per trafficanti e capitalisti?