L’immaginario catastrofico nell’avvento di una nuova modernità

Il primo pensatore che mise in connessione la catastrofe con la modernità fu Walter Benjamin. Secondo il suo pensiero, affinché possano crearsi le condizioni favorevoli all’avvento di una nuova modernità occorre un passaggio catastrofico che rada al suolo l’esistente e apra la strada al progresso. Il progresso è – sempre secondo Benjamin – una tempesta incontenibile idealizzata in un angelo, che dietro di sé vede cumularsi le rovine ma, essendo inerme di fronte a questa forza impetuosa, è impossibilitato a resistere per riflettere sul presente venendo catapultato verso la modernità. Per Benjamin, la modernità è creazione di nuovo spazio mediante la distruzione, con la prospettiva di poter controllare la natura – sostituendola con l’uomo – grazie alla scienza. In definitiva, la modernità è legata a una completa svalutazione del vecchio e una valorizzazione assoluta di ciò che sarà.

Solo con il passaggio dalla modernità alla post-modernità entrerà nell’ordine delle idee l’opportunità di procedere per accumulazione e non per sostituzione: da quel momento, per generare un processo di modernizzazione, si potrà non passare dalla distruzione del vecchio.

Ragionando sull’attualità, una pandemia, seppur naturale, può essere sfruttata politicamente per attuare più facilmente un rimodellamento sociale altrimenti inaccettabile, una nuova modernità. Per ragionare sul punto possiamo rifarci all’immaginario. Esso si fonda principalmente su due elementi:

  • Paure
  • Desideri

Su questi due elementi abilmente miscelati la società può costruire, in condizioni sicure, una pluralità di scenari e di simulazioni, che potrebbero verificarsi nella realtà. L’immaginario è una palestra d’allenamento in ambiente sicuro, che anticipa possibili utopie e/o distopie. Lo stiamo vivendo proprio in questi mesi con la pandemia in corso, che configura uno scenario sociale distopico più volte vissuto artificialmente mediante distopie cinematografiche o romanzi distopici.

L’immaginario plasma un’aspettativa di pericolo, in un forte dualismo tra due reazioni:

 

  • Fatalismo

 

  • Paranoia

 

Se nel primo caso si dà tutto per perso, in una resa completa che porta l’individuo ad accettare un destino alla quale ritiene di non potersi opporre, nel secondo caso si rischia di esagerare la portata di ogni scenario, trasformandolo in una vera e propria emergenza, anche in assenza di elementi certi.

La tecnologia e la scienza si pongono nel ruolo di apparenti risolutori di questo dualismo. Esse ci proteggono da scenari precedentemente ritenuti ineludibili ma, allo stesso tempo, aprono la strada a nuovi scenari, prima sconosciuti o non presenti: le scoperte scientifiche ci salvano, ma ci fanno anche scoprire nuovi pericoli; così come le nuove tecnologie risolvono problemi esistenti ma, proprio per la loro creazione, creano il terreno per l’instaurarsi di nuovi rischi.

In definitiva, viviamo in una continua emergenza. L’abbiamo imparato a comprendere – ben prima dell’avvento della pandemia – dal linguaggio della comunicazione politica e dal comportamento della stessa negli ultimi decenni. Una continua rincorsa alla risoluzione di emergenze, spesso create dalla mancanza di visione e/o programmazione (nell’attuale fattispecie, il riferimento ai tagli alla sanità degli ultimi decenni in ossequio del sacro vincolo esterno europeo) dove lo strumento chiave prende il nome di legislazione d’urgenza. Con essa i governi scavalcano i Parlamenti in ambito legislativo, facendo diminuire o azzerando il confronto.

La situazione attuale, con DPCM – Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri – a getto continuo che modificano precedenti DPCM, non sono che la punta dell’iceberg, almeno in Italia. Serve osservare sotto, in ciò che si ritiene ormai normale ma che normale non è, mantenendo la lucidità, senza farsi travolgere dalla paranoia e senza abbandonarsi al fatalismo.