Meno male che c’è il politicamente corretto

Quando si fa intrattenimento, che si tratti della stesura di un libro, di una sceneggiatura per una serie tv piuttosto che per un monologo teatrale, l’obiettivo principale dovrebbe appunto essere quello di intrattenere, di offrire al proprio pubblico l’occasione per evadere dalla routine quotidiana. Un compito non semplice, specialmente se si pensa a quanto labili e soggettivi possano essere i confini tra realtà e finzione, ma non privo di responsabilità. Lo scorso mese la comica Luciana Littizzetto ha denunciato dallo studio di Che Tempo Che Fa la censura del politicamente corretto, che avrebbe chiuso la bocca ai comici impedendo loro di fare una qualsiasi battuta perché dice: «Si incazzano tutti quanti».
Le cose non stanno esattamente così: la censura del politicamente corretto, che dopo un anno passato davanti a Netflix e alle repliche in prima serata viene chiamata in causa quotidianamente, ha poco ha che fare con la censura e chi lavora nel campo artistico dovrebbe saperlo.

La prima domanda da porsi quando si crea un prodotto culturale, come del resto nella vita, dovrebbe essere: qualcuno potrebbe sentirsi offeso da questa rappresentazione? Se la risposta è affermativa, il gioco è presto fatto e, senza troppe storie, le parole o le azioni incriminate devono essere sostituite. Così come nella vita reale non è considerato accettabile deridere una persona grassa per il suo peso o un immigrato arrivato da poco per le sue difficoltà linguistiche, anche nella dimensione artistica della finzione battute in merito non hanno senso di esistere. Con questo il politicamente corretto ha poco ha che fare: pensare che le persone abbiano iniziato a sentirsi offese dalla propria rappresentazione nei media dall’oggi al domani a causa dell’improvvisa mobilitazione di orde di attivisti di varia natura è semplicemente da ipocriti. Certe battute e rappresentazioni hanno sempre fatto male a chi in quelle immagini stereotipate vedeva ridotto se stesso, se adesso se ne parla non è a causa ma piuttosto grazie al politicamente corretto.

La settimana scorsa Rai1 è stata fortemente criticata per aver andato in onda nell’arco di pochi giorni ben tre fiction, Mina Settembre, Le indagini di Lolita Lobosco e Che Dio Ci Aiuti, in cui ad essere narrate erano storie di finte denunce di stupro da parte di donne che, per un motivo o per l’altro, avrebbero inscenato il fatto. È evidente che, politicamente corretto o meno, in un mondo in cui la violenza sulle donne è ancora una piaga sociale e in cui le survivor di stupri devono sentirsi chiedere se per caso non l’hanno provocata loro la violenza che hanno subito con una gonna troppa corta, narrazioni come quelle proposte dalle due fiction, oltre a mancare di rispetto, rischiano solo di fare danni. Lo stesso vale per la tanto acclamata produzione Netflix Bridgerton che, nonostante altri indiscutibili pregi, propone una scena di violenza sessuale, questa volta su un uomo, vi costruisce la relativa dialettica giustificazionista e, ciliegina sulla torta, la presenta come la più normale delle conseguenze per i comportamenti del protagonista in questione.

Meno male, insomma, che c’è il politicamente corretto ad aprirci gli occhi su narrazioni problematiche verso le quali in passato non si sarebbe sollevata nessuna critica e che oggi si sarebbero perpetrate con l’unico tragico effetto di portare il pubblico a normalizzarle e a riprodurle oltre i confini della finzione artistica. Perché ricordiamocelo: il mondo della finzione è cosa diversa da quello della realtà, è bello immergervisi di tanto in tanto ma non è del tutto separato da quello della quotidianità. Non esiste un codice morale distinto in base al quale trovano legittimazione comportamenti e atteggiamenti discriminatori solo perchè «tanto è tutto finto».