Meno Parlamentari? Questione di qualità

Sono lontani i tempi dell’attacco alla Casta, mentre bene o male la Casta è rimasta al suo posto, avvicendando soltanto qualche nome e slogan, come confermano le periodiche inchieste a livello locale. Al massimo, oggi si opera qualche distinguo in più nell’ambito dei maggiori partiti, ma l’argomento della riabilitazione della prassi politica sta decisamente scemando nell’interesse generale. Tanto che la legge promulgata dal Movimento 5 Stelle, il taglio del numero dei parlamentari da 945 a 600, sta incontrando una serie di oculate critiche nel merito che stanno rendendo la strada verso il referendum confermativo del 29 marzo piuttosto tortuosa.

Il risparmio di qualche decina di milioni di euro da parte dello Stato, a cui si aggiunge la vittoria simbolica in una delle battaglie pentastellate per eccellenza, risulta un argomento piuttosto flebile di fronte alle criticità oggettive riscontrate dai detrattori. Esse si articolano in tre punti:

  • Calo di rappresentatività da parte del singolo parlamentare: i votanti per collegio elettivo aumenterebbero sensibilmente, con ripercussioni sul contatto con il territorio e le istanze locali. Questo calo, oltre ad avere agganci di possibile incostituzionalità, non è di certo compensato dal risicato risparmio pubblico.
  •  Concentrazione di potere con conseguente polarizzazione dei casi di corruzione: in uno stagno ci sono 80 pesci buoni e 20 cattivi. Se si pescano 30 pesci e si mantengono le proporzioni (cosa che la riforma effettivamente fa, riducendo in scala tutte le costanti numeriche del Parlamento attuale, ad esempio il numero minimo di parlamentari necessari per creare un gruppo autonomo), non risulta variata la percentuale di cattiveria nello stagno, ma si ottengono soltanto pesci cattivi più grandi, influenti e perciò pericolosi. 
  • Calo di efficienza nei lavori parlamentari, con riferimento esplicito alle commissioni: meno addetti significa meno possibilità di convocare commissioni parlamentari contemporaneamente, con conseguente allungamento dei tempi.

Per quanto le critiche siano fondate, ognuna di esse nasconde il rovescio della medaglia, leggibile come motivazione implicita da parte di chi approva il taglio. 

  • Per quanto riguarda la rappresentatività, la riforma va letta in un più ampio progetto di rimodellamento della funzione elettiva, che deve essere completata eliminando i capilista bloccato e consentendo la candidatura soltanto nel collegio di residenza. Nel momento in cui ogni parlamentare sarà messo nella condizione di dover rappresentare singolarmente un’ampia fetta di territorio e di cercare da sé il consenso, senza schermarsi dietro investiture dall’alto, emergeranno politici di più alta caratura, in grado di colmare il gap numerico con maggiore preparazione e carisma. La logica di fondo non è dissimile da quella del numero chiuso nell’accesso alle facoltà universitarie. Inoltre, un aumento della base elettiva renderebbe meno impattanti, o quantomeno più costosi e meglio individuabili, i moltissimi fenomeni di voto di scambio che appestano da decenni le tornate elettorali.
  •   La concentrazione di potere implica un aumento di visibilità: riprendendo l’esempio dei pesci, sarà ben più facile pescare quelli divenuti grandi, resi tanto più voraci quanto meglio individuabili per via della taglia raggiunta. Dopotutto le organizzazioni criminali (Mafia in primis) utilizzano proprio capillarità, mimetizzazione e frammentazione per infiltrarsi nelle istituzioni.
  •  Il calo di efficienza è il punto più solido della critica, sebbene s’indebolisca parecchio una volta calato nella reale situazione del Parlamento. Infatti, i lavori procedono a rilento per ben altri motivi: veti partitici incrociati, volontà politica di non far procedere determinati dossier, ricatti di governo, ostruzionismo a oltranza e, in generale, una sotterranea battaglia con valenza meramente elettorale di cui le istituzioni paiono più il mezzo che non il fine. In questo quadro una riduzione del numero degli eletti ha impatto nullo sul problema di fondo, tranne che per un aspetto: meno parlamentari assoluti implica più soggetti impegnati in lavoro istituzionale attivo, a cui di conseguenza viene lasciato meno spazio per evadere dalle loro funzioni e meno tempo materiale per avanzare pretese e personalismi.

In linea di massima, specialmente se si condivide il valore simbolico della riforma, il taglio dei parlamentari è pienamente sostenibile se visto come un primo passo verso un’istituzione parlamentare invariata nella sostanza, ma più pratica e pragmatica nella forma. Casta permettendo.