Misty Copeland, prima ballerina all’ABT di New York, accusata di essere étoile solo perché nera

Quando più di un anno fa ci sbracciavamo dai balconi gridando la famigerata frase «andrà tutto bene» credevamo e speravamo seriamente in una potenziale redenzione del genere umano. Eravamo convinti che la pandemia ci avrebbe cambiati in positivo e che ci avrebbe aiutato a guadagnare una nuova e più saggia consapevolezza sulla vita. Ad un anno e mezzo da queste candide e pie illusioni constatiamo, purtroppo, che questo non si è avverato. Individualismo, gelosie, critiche, intolleranza sono all’ordine del giorno e appaiono tanto più forti quanto si ritengono giustificate proprio in ragione della pandemia. Dai vari attacchi e polemiche, spesso sul nulla degli ultimi tempi, non è stata risparmiata nemmeno Misty Copeland, prima ballerina afroamericana dell’American Ballet Theatre di New York.

La Copeland, che è la prima principal dancer nera dopo settantacinque anni di esistenza della compagnia di ballo, è stata di recente ampiamente criticata per una sua performance, risalente al 2018, nella quale sembrerebbe non essere stata in grado di eseguire un complicato virtuosismo presente nell’atto III del balletto Il lago dei cigni.

Lo sventurato passo che le avrebbe causato diverse critiche è noto nel lessico della danza classica con il termine francese di fouetté. L’incapacità della Copeland nell’eseguire la ripetizione di 32 fouetté in completezza, durante la sua esibizione, l’avrebbe portata ad una severa condanna soprattutto in ragione del suo ruolo di prima ballerina dell’ABT.

La principale accusa rivoltale riguarderebbe una serie di presunte mancanze a livello tecnico che si riterrebbero gravi per una prima ballerina. Legata a questo è anche la polemica secondo cui il ruolo che occupa non sarebbe del tutto meritato e che le sarebbe stato assegnato solo in ragione del colore della sua pelle e del suo difficile passato, passato che, peraltro, è estremamente interessante e insolito.

Nata in Missouri nel 1982, vive in California insieme alla madre e a cinque tra fratelli e fratellastri, traslocando periodicamente di città in città in ragione della vita sentimentale della madre. L’adolescenza è per lei un periodo estremamente difficile. Da un lato i continui trasferimenti e le condizioni finanziarie precarie – per un periodo vive con la famiglia in un motel – dall’altro lato il rapporto molto conflittuale con la madre.

All’inizio del 1996, all’età di tredici anni, peraltro tardissimo, la Copeland si avvicina alla danza frequentando per caso un corso gratuito tenuto dall’insegnante Cynthia Bradley. La donna, che riconosce subito nella Copeland un grande talento, farà di tutto per aiutarla a prendere lezioni di danza classica nella sua scuola. Arriverà addirittura a convincere la madre della Copeland a lasciarla vivere da lei, facendole da tutore. Tuttavia la soluzione ha breve durata in quanto nel 1998, quando Misty ha appena 15 anni, i suoi insegnanti e sua madre intraprendono una battaglia legale per la sua custodia. Nel frattempo la Copeland, che aveva già vinto vari premi e ricevuto diverse offerte da alcune accademie, si trasferirà definitivamente dalla casa della madre per studiare con una nuova insegnante, membro dell’ABT.

A partire da quel momento inizia il suo percorso di ballerina afroamericana all’interno dell’American Ballet, un percorso che non fu poi così semplice proprio a causa del colore della sua pelle, ben lontano dai canoni estetici della danza classica. Il grande coreografo Balanchine infatti affermava: «La pelle di chi danza dovrebbe essere pallida come quella di una mela appena sbucciata». Per questa e per altre ragioni la sua nomina a étoile è avvenuta solo all’età di 32 anni, molto tardi rispetto al percorso canonico della maggioranza delle altre ballerine.

Nondimeno se anche il colore della pelle dovesse aver avvantaggiato Misty Copeland nella nomina a prima ballerina, altrettanto non si potrebbe dire dell’adolescenza, delle possibilità e della famiglia che ha avuto. La sua storia è un buon esempio per riflettere sul fatto che il percorso di vita delle persone non è sempre poi così lineare, perfetto, nei tempi e con i giusti mezzi fin dall’inizio. Non tutti nascono con una madre insegnante di danza classica nell’Upper East Side e un padre violoncellista al Metropolitan.

I fatti dell’esistenza a volte impongono dei ritardi, molte difficoltà, ci spingono verso nuove strade spesso non sempre facili da percorrere. Non sempre va tutto bene. Ma a noi sarebbe bastato, per «andare tutto bene», che la pandemia avesse reso le persone un minimo più consapevoli, più sagge, più attente e meno categoriche nel giudicare la propria vita e quella degli altri.