Perché sul Tav valeva la pena il braccio di ferro

La clamorosa giravolta del premier Giuseppe Conte sulla questione del Tav Torino-Lione è arrivata qualche giorno fa come un fulmine a ciel sereno. Inaspettata, pronunciata con la consueta pacatezza del presidente del Consiglio, ha scatenato l’ira della base dei 5 Stelle, che in larga parte condivideva la lotta No-Tav del Movimento. Da una parte il fatto che «ridiscutere» i termini dell’Alta Velocità (solo merci, ricordiamolo) era uno dei punti del famoso Contratto di Governo, dall’altra il M5S rintronato dopo la batosta delle Europee di fine maggio che la dà vinta all’alleato Matteo Salvini, che insieme a Forza Italia, Pd e Fratelli d’Italia compone il fronte favorevole alla tratta ferroviaria.

Giuseppe Conte è sì un presidente del Consiglio formalmente indipendente perché non iscritto a nessun partito, ma da sempre è stato espressione del Movimento 5 Stelle che infatti – nell’ipotetico e utopistico governo monocolore pentastellato presentato a Roma poco prima delle elezioni del 4 marzo 2018 – lo voleva ministro. Quindi il fatto che abbandoni la lotta contro il Tav è una delusione, per usare un eufemismo, per gli elettori. Ed è uno smacco anche la vittoria di Pirro che Luigi Di Maio vuole estrarre dal parlamento: mettere al voto la questione Torino-Lione significa sì mostrare che l’unico partito contrario è il Movimento, ma vuol dire anche mettere la pietra tombale su questa storia.

Al di là del merito della lotta al Tav, è evidente che ai 5 Stelle sarebbe convenuto insistere su questo punto. Sia perché è considerato (almeno dai loro elettori) un tassello fondamentale del progetto di governo gialloverde, sia perché non avrebbe dato come unico risultato possibile la caduta dell’esecutivo. E se anche fosse andata così? Proviamo a esaminare uno scenario parallelo, in cui il premier Conte e il vicepremier Di Maio sono irremovibili sulla questione Tav. Che cosa sarebbe potuto succedere?

Ipotesi 1. Salvini cede e preferisce rimanere al governo con i pentastellati anche a costo di rinunciare a una grande opera che secondo lui, nonostante lo studio commissionato dal Ministero delle Infrastrutture sui costi e i benefici alcuni mesi fa, è importante. I 5 Stelle vincono, la Lega perde ma l’esecutivo resta in piedi.

Ipotesi 2. Il segretario leghista diviene anch’egli irremovibile dalle sue posizioni pro-Tav e mette a rischio la tenuta del governo. Premesso che con l’attuale parlamento le uniche due maggioranze possibili sono Lega-M5S e M5S-Pd, per sfruttare il consenso accumulato quest’anno Salvini avrebbe dovuto sperare in nuove elezioni. E a quel punto si sarebbe dovuto presentare come colui che ha fatto cadere il «governo del cambiamento» su una questione che aveva sottoscritto firmando il Contratto con Di Maio. Da una parte si sarebbe dovuto (finalmente) prendere una responsabilità delle sue azioni di fronte agli elettori, dall’altra non avrebbe certo rischiato di rubare voti ai 5 Stelle che, come abbiamo detto, sono in larghissima parte No-Tav.
A questo punto, a meno di sorprese in casa Pd, si sarebbe andati al voto e probabilmente i 5 Stelle, dimostrandosi per una volta coerenti con le loro posizioni, non avrebbero perso ulteriori voti, mentre la Lega non ne avrebbe guadagnati altri, magari perdendo invece gli elettori convinti di una responsabilità di Salvini nella caduta del governo.

Ma queste, ovviamente, sono soltanto supposizioni. Di Maio è troppo impegnato a cercare di salvaguardare la sua leadership nel Movimento e a parlare di assurdi «mandati zero» per esaminare in modo lucido e razionale la realtà. E il risultato è un completo fallimento: il M5S, dopo aver salvato Salvini da un processo per il caso Diciotti, perde un ulteriore punto fermo della sua storia: la contrarietà al Tav Torino-Lione. Difficile che anche gli elettori con più pelo sullo stomaco e più dediti alla realpolitik possano giustificare anche questo cambio di rotta se non con l’italicissimo e ingiustificabile tengo famiglia e tengo poltrona.