Quale accoglienza se 1 detenuto su 3 è straniero?

Nelle nostre carceri, emerge una situazione spaventosa sul piano della nazionalità di chi, costretto, vi alberga: infatti, addirittura il 33% della popolazione ivi detenuta risulta essere straniera. Questo dato, a fronte di una percentuale totale di cittadini esteri che vivono nel nostro Paese che si attesta intorno al 7%, si rivela a dir poco sconcertante: quella che a tutti gli effetti è una minoranza delinque in maniera così massiccia.

Tristemente, un numero notevole di nostri connazionali si lascia guidare dal cosiddetto sentire comune, l’insieme degli schemi e delle categorizzazioni con cui si legge la realtà e, alla ricerca di spiegazioni a questo fenomeno increscioso, spesso scade in analisi alquanto becere. Così, non è raro sentire affermazioni raccapriccianti come: «I neri hanno il crimine nel loro DNA»; oppure: «Questi non sanno nemmeno che cosa sia la civiltà»; o ancora: «Vengono qui apposta per rubare perché non saprebbero fare altro».

Si denota un approccio alla questione dettato da convinzioni pregiudizievoli legate all’etnia. Pare di trovarsi di fronte a dei novelli Cesare Lombroso, criminologi improvvisati che, come lo studioso del XIX secolo, credono di poter ricondurre a determinati tratti somatici, specialmente all’atavismo (sarà per questo che spesso i razzisti usano il vergognoso appellativo di «scimmie» per gli africani), una potenziale inclinazione alla criminalità. Tuttavia, se persino Ferri, suo fervido seguace, si discostò parzialmente dalle teorie lombrosiane, sarebbe opportuno che anche noi tutti abbandonassimo questo metro di giudizio dimostratosi privo di fondatezza per analizzare le dinamiche che conducono al reato.

Altri studi possono accorrere in nostro aiuto, decisamente più attendibili. Per esempio, possiamo accostarci al pensiero di Taylor, Walton e Young espresso in «The New Criminology», 1973. Essi ritevenano che il controllo sociale induce alla devianza, in quanto si sviluppa un’interazione tra il deviante e il suo controllore che conduce a una trasformazione del deviante, il quale finisce per considerarsi tale e a comportarsi di conseguenza. Questo è ampiamente dimostrato in tempi recenti dagli effetti del populismo penale: l’enfasi sulla delinquenza da parte dei politici in campagna elettorale, dipinta come emergenza, peraltro imputabile agli immigrati, ha causato l’incremento degli ingressi in carcere e il sovraffollamento degli istituti di pena.

Sarebbe dunque sufficiente allentare questo clima per vedere diminuiti i reati commessi dagli stranieri in Italia? Probabilmente risulterebbe utile, ma non abbastanza da arrestare questa tendenza. Altre teorie criminologiche, infatti, individuano le cause scatenanti della carriera deviante nel tessuto sociale dal quale provengono i rei. Tanto più un soggetto permane in uno stato di degrado, privazione, disagio, tanto più sarà portato a commettere reati. Addirittura, vi è chi reputa non solo l’indigenza come fattore di rischio, ma la disuguaglianza in senso lato come responsabile dell’avviamento della devianza; perciò, anche si facessero grandi passi avanti nella lotta alla povertà, la presenza di disparità tra i membri della società rappresenterebbe un rischio.

Questo quadro ben si sposa con la condizione degli stranieri in Italia; essi giungono da noi con pochissimi averi, ma tanta speranza che, in molti casi, si scontra con una realtà che non regala un vero cambiamento nella loro qualità di vita, data la crisi diffusa; si ritrovano, perciò, a dover pernottare in luridi ripari di fortuna, ad accettare lavoretti ad alto indice di sfruttamento, a non riuscire a vivere dignitosamente né a inviare in patria gli aiuti economici promessi. Così, cedono al guadagno facile attraverso il furto, la rapina, lo spaccio, per tirare avanti oppure perché costretti: non dobbiamo dimenticare che moltissimi migranti si indebitano con organizzazioni criminali per poter raggiungere l’Europa e, una volta qui, sono obbligati o a «lavorare» per loro o a procurarsi comunque del denaro per poter sciogliere la loro situazione debitoria, col timore che i trafficanti li uccidano o facciano del male ai loro cari.

Come possiamo contrastare la criminalità straniera se continuiamo, in nome della solidarietà, ad accogliere immigrati in un paese in cui la disoccupazione generale sfiora l’11% e quella giovanile supera abbondantemente il 30%? È palese che non è fattibile garantire ai nuovi arrivati un impiego onesto attraverso il quale mantenersi e che questa mancanza li spinge verso il crimine; ancora di più lo è il fatto che, se si spalleggia il meccanismo dei barconi chiedendo porti aperti e nessuna contromisura, stiamo importando persone ricattate disposte a tutto per accontentare le richieste dei loro aguzzini.