Sfumature di libertà

In un momento storico dai tratti distopici è utile interrogarsi sul concetto di libertà. Esso, in base alla cultura di riferimento, mostra diverse sfumature interpretative. Si richiameranno anche degli argomenti già sviluppati attentamente nel blog, tali da far emergere le contrapposizioni ideologiche esistenti.

«Ero stato messo in prigione mentre stavo andando dal calzolaio a ritirare una scarpa da riparare. Quando fui rilasciato, il mattino dopo volli portare a termine una commissione e, dopo aver calzato la scarpa aggiustata, mi unii al gruppo di persone che andavano per mirtilli e che erano ansiose di mettersi sotto la mia guida; e in mezz’ora ero in mezzo al campo di mirtilli, su una delle nostre colline più ampie, a due miglia di distanza, e allora lo Stato non poté più essere visto da nessuna parte». Cit. Henry David Thoreau, Disobbedienza civile, 1849.

La concezione della libertà che si può evincere da questo passo di Thoreau, fondamentale per comprendere il rapporto individuo-istituzioni nella cultura statunitense, riporta all’esposizione dei tratti fondamentali dell’immaginario americano, con particolare riferimento all’archetipo della frontiera. Thoreau, per ritrovare la libertà perduta, necessita esclusivamente del concetto di spazio, che è il fattore che media i conflitti nell’immaginario americano. Dentro questo contesto culturale, la frontiera è infatti uno spazio libero dalle istituzioni, dove non vige ancora una legislazione statale. La libertà di Thoreau è, dunque, una libertà dallo Stato, da esercitare nel momento in cui le istituzioni infrangono i diritti umani. L’elemento interessante, a ben rifletterci, è l’entità dello spostamento: la libertà soppressa pare riacquistabile a sole due miglia di distanza. Dal punto di vista europeo, che per mancanza di spazio ha dovuto imparare a mediare il conflitto col confronto, questa opzione, figlia del periodo della frontiera americana, non può che risultare ingenua.

Per proseguire questo ragionamento è utilissimo Giorgio Gaber. Con la famosissima «La libertà», ci offre una sponda per ribaltare quanto appena esposto con Thoreau.

«La libertà non è star sopra un albero, non è neanche un gesto o un’opinione, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione».

Si nota immediatamente il rovesciamento d’interpretazione di Giorgio Gaber rispetto alla concezione di Thoreau e, più in generale, statunitense. Gaber arriva a negare la libertà intesa come spazio libero per spostare la riflessione sull’intervento della collettività finalizzato a ricercarla: utilizza lo strumento della partecipazione degli individui alla vita sociale. Quella di Gaber non è una libertà degli individui dallo Stato. Al contrario, pare fissare un obiettivo collettivo: la partecipazione di individui intellettualmente liberi per raggiungere una libertà sociale. In questi due modelli di libertà – dallo Stato o per mezzo dello Stato – il punto centrale sta nel punto di caduta tra libertà e uguaglianza.

Attualizzando la tematica, i tratti distopici ci riportano allo slogan orwelliano inciso al Ministero della Verità: «La libertà è schiavitù». I riferimenti negli ultimi anni si sprecano: dal progetto ministeriale #BastaBufale all’iniziativa della Commissione Europea per arginare la disinformazione in rete. Considerando il volume informativo, il primo bersaglio di queste iniziative dovrebbe essere proprio l’immacolato mainstream, che spesso pare applicare tecniche di deformazione dell’informazione. Ciò che emerge nel reale, però, è un’azione tendente all’omologazione mediante il politicamente corretto, alle marchiature aprioristiche, alle patenti d’autorevolezza e ad atti di censura ormai all’ordine del giorno, che minano i principi dell’articolo 21 della Costituzione.

Tale processo è in atto da tempo. L’ha potuto seguire nel suo sviluppo chi si è interessato al dibattito sull’insieme di riforme sociali sospinte dal «Ce lo chiede l’Europa» dove, in nome di un obiettivo prospettato distorto e ogni giorno più contraddittorio, si è portata avanti una narrazione alimentata da dosi crescenti di castighi, generati via vincoli esterni, verso vittime incapaci di soddisfare gli standard fissati. Su questo piano, una porzione alla volta, sono state limitate libertà precedentemente date per acquisite, salvo continuare a non intravedere il raggiungimento dell’obiettivo politicamente decantato.

Con l’arrivo della pandemia, questo modello è stato solo traslato a livello di libertà individuali, mantenendo intatta la colpevolizzazione delle vittime. Di questo passo, quando si dovranno rispettare i paletti del Recovery Fund (nuove riforme sociali) per ottenere il pagamento delle rate, assisteremo all’apice.