Sonda monitora Mercurio, ma scopre anche novità su Venere

Una delle poche cose che non si fermano nemmeno durante il Covid-19 è la scienza.
Una di queste scoperte però tocca l’assoluta casualità ed è stata pubblicata su Nature Astronomy.

Il merito va soprattutto alla sonda della NASA Messenger, strumento che ha disegnato orbite attorno a Mercurio per alcuni anni ha compiuto molto più che il suo lavoro.
Infatti, orbitando attorno al pianeta ha collezionato un’infinità di dati riguardanti sia il corpo celeste oggetto della missione sia anche un altro pianeta, Venere.

La casualità non è però «del tutto casuale» dato che per raggiungere Mercurio la sonda è stata costretta a passare velocemente anche a Venere, e questo «inconveniente» è stato utilizzato al fine di testare il funzionamento di alcuni tools della sonda.
Questo sistema che è stato utilizzato dagli scienziati solo come check, al fine di poter provare già in partenza la corretta analisi di quegli strumenti che sarebbero poi stati usati sei mesi dopo sul vero oggetto dello studio.

Uno dei principali strumenti della sonda è lo spettrometro di neutroni, un apparecchio tramite il quale è possibile rilevare i neutroni liberati nello spazio dai raggi cosmici. Tale tool è stato utilizzato in particolare da David Lawrence, membro della squadra e fisico nucleare del Johns Hopkins Applied Physics Laboratory, il quale si prese carico di testare il funzionamento dello spettrometro.
L’esercitazione messa in atto nel giugno 2007 ha portato alla luce una rivelazione che ha sorpreso anche i ricercatori: l’atmosfera di Venere sembrerebbe non uniforme.

Infatti lo spettrometro ha rilevato un alta concentrazione di azoto nelle nuvole dell’atmosfera a 50 km di altezza dalla superficie del corpo celeste.
Questo dubbio emerse dai dati sulla concentrazione di neutrini presenti, che dipendono dalla quantità di azoto presente nell’atmosfera di Venere.
Anche secondo Patrick Peplowski, un altro membro del team, a seguito della simulazione fatta a computer è emerso che tutti i neutrini «sembravano provenire da una regione tra circa 56 e 100 chilometri sopra la superficie» e ciò che è emerso «è stato davvero un colpo di fortuna».

I dati analizzati furono talmente inaspettati che, come spiega Peplowski: «Molti scienziati sembravano sorpresi che fosse qualcosa che valeva la pena indagare».

Questa ricerca ci dimostra come la vita sia sempre imprevedibile e come a volte alcune convinzioni scientifiche ben radicate possano essere scardinate da un giorno all’altro.