Ci vorrebbe più «Cuore» per riscoprirci italiani

Se a un giovane contemporaneo si proponesse il vocabolo «Cuore», probabilmente costui replicherebbe canticchiando: «Sole, cuore, amore», il celebre motivetto estivo del 2001 di tal Valeria Rossi. Per le generazioni precedenti, invece, «Cuore», non è né parte di un tormentone romantico, né, ovviamente, solo un organo vitale, bensì un’opera letteraria di fondamentale rilevanza.

Scritto da Edmondo De Amicis, il libro vede posta la sua collocazione temporale generale tra il 1878, anno dell’incoronazione di Re Umberto I e il 1886, anno in cui viene pubblicato. Più specificamente, si tratta del resoconto di un anno scolastico, il 1881/1882, intervallato da racconti di nobili gesta compiute da valorosi nostri connazionali. Insomma, le vicende si sviluppano nel neonato Regno d’Italia, precisamente nella città di Torino.

La narrazione avviene in prima persona, infatti è il protagonista, il piccolo Enrico Bottini, frequentante la terza elementare, di origini borghesi, a far inoltrare il lettore nel suo mondo. Di tanto in tanto, tuttavia, oltre ai cosiddetti racconti del mese già citati, compaiono delle brevi lettere redatte dalla mamma o dal papà, indirizzate al bambino, talvolta per lodarlo, talvolta per fargli notare i suoi errori e donargli un insegnamento di vita.

Nei tempi andati, «Cuore» era reputato il romanzo di formazione per eccellenza ed era diffusissimo nell’insegnamento scolastico, ora sembra, invece, essere stato riposto in un cantuccio. Probabilmente, la lingua in cui è stato composto ha influito su questo progressivo abbandono. Infatti, i vocaboli adottati spesso sono caduti in disuso e risultano di non immediata comprensione, sprecialmente per un giovanissimo scolaro. Però, proprio questa particolarità potrebbe fornire uno spunto interessante per mostrare agli alunni com’è mutevole la lingua, quanto la staticità proprio non le appartiene, mentre l’evoluzione risulta incessante. In certi casi, si tratta semplicemente di una differente ortografia ed è affascinante scoprire che 120 anni fa una parola come, per esempio, «pressoché», si scriveva «presso che», non solo, aiuta a comprenderne più profondamente il significato, «vicino a».

Al di là della forma, il contenuto è veramente prezioso, forse oggi più che allora, in quanto quelle dinamiche sociali e morali, per molti versi, non ci appartengono più. In alcuni casi, possiamo affermare, per fortuna. Di Coretti e «Muratorino», bimbi indigenti costretti a lavorare fin da piccoli per far quadrare il bilancio familiare, nella nostra Italia non ce ne sono più, mentre allora, nelle aule scolastiche, sporchi e sudati per la fatica, ve ne erano numerosi. Enrico, pur essendo d’estrazione sociale superiore, non li esclude, non li disprezza, bensì cerca di aiutarli, ma soprattutto, li ammira: lui ha solo i suoi doveri da alunno a cui pensare, quei compagni più sfortunati, al contrario,  oltre a sgobbare sui libri, devono prestare la loro manodopera.

È forte la percezione del dovere, come quella  della responsabilità. Non sono solo lezioni a cui partecipare, compiti da svolgere, esami del mese (così venivano denominate le verifiche periodiche) da sostenere, ma impegni da rispettare con la massima serietà, verso se stessi, i propri genitori, i propri insegnanti, a cui Enrico e i suoi amichetti rivolgono totale devozione, intima gratitudine. Tutto lo sforzo profuso è, però, ripagato dalla meritocrazia; gli alunni eccellenti, infatti, vengono pubblicamente insigniti di premi e medaglie, alla presenza delle autorità cittadine e degli altri compagni che li applaudono ed elevano a paradigma da seguire.

Come è possibile evincere, il senso di comunità è vigoroso, tanto negli eventi lieti, quanto in quelli tragici, come in quello della morte di una maestra, ammalata, ma in servizio fino all’ultimo, attorno alla quale, bambini e famiglie, si stringono all’unisono, o anche ogniqualvolta un bambino o un  genitore restano a letto infermi.

Le classi sociali, pur, in alcuni contesti, coese tuttavia fanno percepire i solchi tra di loro. Così, è tanta l’amarezza nel constatare, da parte di Enrico, che presto lui, Derossi (il genio della classe) e Nobis, in quanto abbienti, proseguiranno gli studi e diventeranno importanti professionisti, mentre i loro compagni poveri saranno costretti ad accantonare i libri per dedicarsi ai mestieri. Il padre, di animo nobilissimo, lo esorta, quantunque, a coltivare, anche in futuro l’amicizia con quei ragazzi.

L’impronta di tutto il romanzo che finora si è solo accennata è certamente patriottica, atta a compattare i neonati italiani. È evidente la volontà di esaltare i valori comuni, di celebrare la storia e la cultura che unisce le regioni del regno, per cementificare il sentimento di appartenenza. In questo, i racconti del mese giocano un ruolo decisivo, mostrando quanto sono valorosi ed encomiabili gli italiani, da nord a sud.

Riscoprire questo pezzo di letteratura del Bel Paese ci farebbe un gran bene, instradandoci alla coesione e rispolverando valori perduti, anche rallegrandoci per ciò che, insieme, siamo riusciti a costruire e a sconfiggere .