Banche: cos’è successo dopo il referendum

Al di là del referendum, anche per le banche è passata la data fatidica. Il 4 dicembre è arrivato e ha portato con sé la vittoria del «No» e la domanda resta una: come sarà ora la situazione economica e bancaria italiana?
Facendo un riepilogo ci eravamo lasciati con una situazione precaria nella quale sia Monte Paschi che Unicredit erano in attesa di un aumento di capitale ed entrambe avevano sospeso qualsiasi contrattazione nei mesi precedenti, per non rischiare di fomentare una possibile volatilità del mercato.
Il 5 dicembre la Borsa ha raggiunto valori assolutamente normali e Milano ha chiuso a -0.2% limitando le perdite della giornata, mentre le altre borse lavorano senza intoppi e Wall Street vola con il Dow Jones, il più noto indice azionario americano, che raggiunge i massimi storici.
I titoli bancari invece risentono lievemente del referendum, ma del resto la situazione bancaria italiana naviga su acque movimentate da tutto l’anno.
Banco Popolare si arresta a -7.4, Bpm si ferma a -7.9%, Mediobanca a -4.2% , Mps si ritrova nuovamente in rosso a -4.21% e dulcis in fundo Unicredit chiude a -3.36.
L’unica spiegazione dell’ininfluenza del voto sembra essere quella che i mercati già da tempo avevano captato nell’aria la vittoria del «No», e per quanto riguarda le banche, questo è un problema che il nostro paese si trascina avanti da tempo.
Anche lo spread il giorno dopo il voto si è alzato di poco, solo di 167 punti base rispetto ai 162 del 3 dicembre.
Inoltre secondo le agenzie di rating Standard & Poor’s e Fitch non vi è stato assolutamente alcun impatto sull’affidabilità delle azioni e delle imprese italiane.
Le notizie per l’Eurozona sono incoraggianti secondo Mario Draghi, presidente della Bce, che prevede che «l’economia crescerà in modo moderato ma solido» e che ha comunicato nella giornata dell’8 dicembre la sua intenzione di prolungare di 9 mesi il quantitative easing, ovvero il piano che prevede di allungare fino a fine 2017 l’acquisto dei titoli di stato italiani per stimolare la crescita.
Tale manovra, detta anche facilitazione quantitativa, prevede la creazione di moneta a debito da parte della banca centrale e la sua iniezione nel mercato attraverso l’acquisto dei titoli governativi del paese in difficoltà con l’obiettivo di stimolarne la crescita e l’occupazione e per riuscire a fissare l’inflazione ad un certo valore: in altre parole il sistema viene «pompato» per riuscire così a far ripartire l’economia.
Tuttavia anche se la Bce ha accettato di aiutare ulteriormente l’Italia, Draghi ha annunciato che da aprile gli acquisti verranno ridotti da 80 a 60 miliardi di euro al mese, riuscendo però a mantenere i tassi d’interesse allo 0%.
Tutto positivo tranne l’unica nota dolente: le banche.
Il 9 dicembre la Bce ha negato il permesso a Monte Paschi di allungare il termine per le trattative sull’aumento di capitale e questo ha portato alla conseguente caduta in picchiata di Mps che ha raggiunto in borsa un rosso del 10.55% e che ha trascinato con sé tutte gli altri titoli bancari.
L’istituto aveva chiesto una dilazione di 20 giorni e secondo le recenti comunicazioni l’Eurotower ha respinto la proposta sostanzialmente per due motivi: in primis, secondo l’Europa, la banca senese è da molto tempo in trattativa con diversi possibili investitori come il fondo del Qatar, Soros, Paulson e Atlas che dovrebbero ormai avere avuto abbastanza tempo per maturare una decisione e, in secondo luogo, quasi sicuramente la crisi di governo attuale durerà molto più di 20 giorni.
In questo momento le notizie non sono rassicuranti perché sembra che l’accordo non ci sarà e dunque, per mettere in sicurezza una banca sistemica come Mps, si pensa che servirà l’intervento statale e sembra che il Tesoro sia già all’opera per un decreto legge secondo il quale, probabilmente, dovranno contribuire gli azionisti e i proprietari delle obbligazioni subordinate.
Secondo il quotidiano Repubblica, il decreto dovrebbe comprendere oltre al problema Monte Paschi anche la riforma delle Banche Popolari e la ricapitalizzazione del Fondo di risoluzione.
Un altro grosso problema è Unicredit che il 9 dicembre cola a picco in Borsa fino ad essere sospeso in asta di volatilità, e questo è un segnale forte e chiaro del malessere che imperversa nell’istituto bancario in questione.
L’aspetto negativo è che Unicredit è finita in rosso dopo le cessioni che avrebbero dovuto far risalire l’istituto.
Infatti l’8 dicembre la banca ha venduto il 32.8% di Pekao per 2.4 miliardi alla compagnia Pzu e al fondo statale Pfr. Unicredit ha guadagnato altri 500 milioni dall’offerta di 1,916 Certificati Equity-Linked con regolamento obbligatorio in azioni ordinarie Pekao: tale vendita permetterà alla banca di completare la cessione del restante capitale di Pekao entro la data limite.
Oltre a queste vendite Unicredit ha intrapreso una trattativa con la francese Amundi per la vendita di Pioneer che potrebbe far salire il capitale della banca di oltre 3 miliardi di euro.