Che ruolo esercita l’immaginario per una potenza imperiale come gli Stati Uniti?

Il focus dell’agenda setting mondiale si è fissato sulle elezioni americane. All’interno del blog, con grande anticipo rispetto a questo appuntamento, si è costruita una narrazione della cultura americana appoggiandosi allo strumento fondamentale: l’immaginario. Ma che ruolo esercita l’immaginario per una potenza imperiale? Nel caso concreto degli Stati Uniti d’America, l’immaginario rappresenta un vero e proprio strumento di controllo dell’impero, una calamita che plasma il modo di pensare e di agire delle province in funzione degli interessi del dominus. Basta rifletterci con attenzione: quando nella provincia si comincia a consolidare l’acquisizione degli usi e dei costumi del controllore, il concetto stesso di sovranità ne viene svilito. La sovranità, intesa come diritto di un popolo di autodeterminarsi, si esercita al fine di costruire un corpo sociale coeso sia nei fini che nelle modalità di funzionamento. È qui che entra in gioco l’importazione dell’immaginario del dominus: esso crea delle crepe nel corpo sociale della provincia, lo disarticola, ne compromette il funzionamento, ne svilisce la sovranità.

È evidente che uno Stato sovrano non si releghi volontariamente a provincia di un impero, ma ne entri a far parte per causa di forza maggiore, come nel caso italiano con gli Stati Uniti d’America. La capacità di gestione dell’impero da parte degli USA è una questione complessa, composta anche da autolimitazioni. Pensiamo all’immenso deficit commerciale accumulato dagli USA, che giocano quasi il ruolo di acquirente di ultima istanza, compensando gran parte delle province in surplus. Questo genera tensioni nella società americana che, seppur conscia di essere impero, ne subisce i costi anche limitando il proprio apparato industriale (in quanto paese importatore). Nel 2016, Trump si era presentato conscio di questo malessere, promettendo una proiezione dell’attenzione politica più verso l’interno, in una concezione figlia dell’archetipo puritano, di controllo, sicurezza, chiusura. In realtà, quattro anni dopo, i dati ci parlano di un surplus commerciale che non è andato calando come ci si poteva aspettare dalle premesse.

Ora, nel 2020, con la sfida Trump vs Biden, si è andato riproponendo un modello similare. Il famoso Make America Great Again trumpiano, al quale si è andata a scontrare una concezione precedente all’ultima presidenza, che propone una visione imperiale che non si può non guardare all’esterno degli USA, ma tenta di sedare il malessere sociale e le forti divisioni con la promessa di una crescita dello Stato sociale.

Guardando la contesa dall’altra parte dell’oceano Atlantico, risulta tristemente grottesca la visione delle reazioni colorate dei vari leader. Il riferimento ai leader di Stati europei, d’istituzioni europee, ma anche di sottosegretari e semplici parlamentari italiani lasciano basiti. Dall’analisi politica si scende velocemente al tifo da stadio paragonabile al contesto calcistico: europeisti con gli occhi stellati e il cuore palpitante per Biden, come se un qualsiasi Presidente di una forza imperiale come gli USA potesse guardare ad altro che non all’interesse del proprio impero; pseudo sovranisti italici filo-trumpiani.

Dalla nostra piccola provincia dell’impero, possiamo solo osservare l’incoronazione di uno dei due contendenti, con poteri più insiti nell’immaginario (specie nel concetto di predestinazione) che non nella realtà, consci che lavorerà per gli Stati Uniti, non certo per noi. Unica annotazione, da un punto di vista sovranista, la concezione del ruolo tedesco in Europa: disturbarla o lasciarla libera, giocando sulla sua voglia egemonica per provocare le reazioni degli altri Stati?