Coronavirus: ritratto di un popolo di furbi (coglioni)

Vi scrivo dalla provincia di Padova, da una delle zone che da domenica 8 marzo sono all’interno dell’area «arancione», al pari della Lombardia e di altre province di Nord e Centro Italia. Quelle più colpite dalle misure restrittive imposte dal Decreto del Presidente del Consiglio. E da questa posizione «privilegiata», per così dire, vi posso comunicare che dopo attenta riflessione ho trovato almeno un aspetto positivo di questa situazione di crisi sanitaria. Abbiamo potuto avere un’ulteriore conferma di chi sono gli italiani.

Gli italiani sono un popolo di furbi. Brontolano sulle regole che (per motivi sacrosanti) limitano la loro libertà e cercano un modo per aggirarle, sentendosi così alquanto fighi e non provando alcuna vergogna. Abbiamo avuto fin troppi esempi di comportamenti come questi nei giorni scorsi: tipo quelle persone che dovrebbero starsene a casa e che invece vanno a sciare, ma poi ci sono anche tutti quelli che non vengono scoperti, che sono molti di più.

Cittadini (si fa per dire) che non si rendono conto del rischio che corrono loro stessi (ma di questo chi se ne frega), ma soprattutto il danno che rischiano di infliggere alla società. E ve lo dice uno che, per età e per condizioni fisiche, secondo la statistica non dovrebbe avere particolari problemi a contrarre il Coronavirus e a guarirne senza particolari conseguenze. Perché allora sono chiuso in casa? Perché ho senso civico. 

Non voglio prendermi il virus per poi contagiare mia nonna che ha quasi 89 anni e che non so se riuscirebbe a uscirne facilmente come potrei farcela io. Non vorrei prendermi il virus per poi passarlo a una persona già malata o immunodepressa. Ma non c’è solo quello, c’è anche una questione sociale su larga scala. 

I dati lo mostrano chiaramente: una fetta non irrilevante di chi ha contratto il Coronavirus ha bisogno di andare in ospedale e una parte di questi ha bisogno di essere ricoverata in terapia intensiva. È ovvio che in Italia i posti letto ospedalieri sono limitati, quelli in terapia intensiva sono ancora meno, distribuiti in modo non omogeneo nel nostro Paese. Questo significa che cercare di rallentare il contagio del virus ha come effetto quello di rallentare l’affollamento degli ospedali, cosicché si possa trovare spazio sia per chi ha contratto il coronavirus, sia per tutti coloro che hanno bisogno di cure per altri motivi, per esempio un infarto o un incidente stradale.

Ma queste sono motivazioni troppo poco egoistiche per essere capite dall’italiano comune, che magari gioisce di non andare al lavoro oppure pensa di poter stare tranquillo perché è giovane e quindi il coronavirus in teoria non dovrebbe preoccuparlo. Queste sono cazzate. In queste settimane abbiamo la riprova che non siamo uno Stato, siamo una mandria di egoisti che non sanno neppure cosa sia il senso civico, la responsabilità sociale.

Quando tutto questo sarà passato, mi auguro che ci ricorderemo di chi sono i nostri (cosiddetti) concittadini e di come ci siamo comportati noi in questa situazione. Ma con onestà. In tanti saranno orgogliosi del contributo dato, anche solo rimanendo in casa, per rallentare l’emergenza. Mi illudo che i troppi «furbetti» troveranno il tempo per vergognarsi un po’.