Hopper ci parla di solitudine all’interno di mondi cristallizzati

La condizione di isolamento, a cui la quarantena causata dal COVID-19 ci ha sottoposto, è uno stato nel quale siamo stati fisicamente costretti, ma forse l’isolamento e la solitudine interiore sono spettri che ci hanno sempre accompagnato, anche nei tempi precedenti all’esplosione del virus.

Edward Hopper (1882 – 1967), pittore statunitense, era ben consapevole di questo stato di solitudine che abita l’uomo contemporaneo, individuo che si muove all’interno di un contesto capitalista alimentato dal consumo, di un tempo frenetico e affollato dalla gente, dai pensieri, dai soldi, dall’insoddisfazione. L’esponente del realismo americano (con tratti del tutto simbolisti) era infatti famoso soprattutto per la sua personale rappresentazione della solitudine nella società borghese americana, il tanto agognato American dream nascondeva, infatti, delle zone d’ombra inesplorate. La qualità della vita nell’America degli anni ’20 e nel secondo dopoguerra era oggettivamente migliorata per il ceto medio della popolazione, ma l’omologazione e la competitività provenienti dalle nuove abitudini economiche e sociali diventarono talvolta avvilenti per l’individuo. La solitudine è dunque il tema centrale dell’arte di Hopper, essa simboleggia l’America: l’individualità vuota in un paese che è solo astrattamente una nazione.

L’arte matura di Hopper, che impiegò due decenni di preparazione prima di consolidarsi negli anni Venti, è sempre attuale e libera dal tempo: una serie di momenti liofilizzati e misteriosamente raccontanti, la proiezione romantica di una solitudine inevitabile. Hopper ci parla dunque dal passato, mette in luce i nostri stati isolati di questi tempi con posata intensità. Egli dipinge mondi all’interno di sfere di cristallo, immobili ma vibranti.
Nelle opere mature di Hopper ci si sente spettatori, il pittore mette in scena una storia come un vero e proprio scenografo, il pubblico la osserva come se fosse al cinema o a teatro. La pittura di Hopper cattura e reinterpreta frammenti di realtà. La solitudine rappresentata dall’artista non è consapevolmente vissuta dai suoi personaggi come un momento di introspezione interiore, ma è una solitudine subita, essa rappresenta uno stato di alienazione, di lontananza da sé stessi, un esempio ne sono le opere «Hotel room» (1931), «Automat» (1927), «Morning in a city» (1944) e «Nighthawks» (1942).

Hopper raffigura l’omologazione che si manifesta nella metropoli.Già negli anni ’40 il pittore americano intercetta il senso di smarrimento esistenziale che pervade ampi strati della società. I personaggi sono delle entità, delle monadi svuotate, quasi in attesa di qualcosa che, come nell’opera teatrale «Waiting for Godot», forse, mai arriverà. I protagonisti nelle opere di Hopper sono persone inserite nel mondo lavorativo, rappresentate spesso in un ufficio o intente a lavorare, sono dunque persone inserite nei meccanismi produttivi della società, ma ingabbiate nel ciclo infinito di produzione e consumo calato nel contesto della metropoli, lontano dalla natura come i dipinti «New York movie» (1938), «Office in a small city» (1953) e «New York office» (1962). Il richiamo emotivo di tutti i personaggi di Hopper richiede la loro inconsapevolezza di essere guardati per catturarne la nudità più cruda fatta della loro esistenza.

Hopper mostra come, esplorando una condizione di solitudine vissuta individualmente, in realtà tutti insieme apparteniamo a questa realtà e ai meccanismi sociali che talvolta ci confinano nell’isolamento interiore, immaginando il mondo come una grande sfera pulsante fatta di persone sole, ma insieme.