Lavoro minorile: una piaga storica che sopravvive

Con l’avvento sia della prima, ma maggiormente della seconda rivoluzione industriale (XIX secolo) iniziò a dilagare la piaga, ancora purtroppo nota, dello sfruttamento della manodopera infantile.
I bambini, soprattutto quelli appartenenti ai ceti più poveri, erano impiegati in lavori molto pesanti e duri per la loro giovane età: i figli di contadini venivano impiegati in lavori rurali, spesso differenziati per i due sessi; in epoca ottocentesca, con l’avvento dell’industrializzazione ed il conseguente inurbamento, i bambini venivano impiegati nei lavori di fabbrica o come apprendisti nelle varie botteghe in città.
Gli orari di lavoro andavano dalle 9 alle 12 ore di fila, pressoché senza pause, a volte fino alle 18 ore (di conseguenza anche con turni notturni, che privavano i bambini delle ore di sonno minime a mantenersi in salute). I bambini subivano abusi fisici con punizioni corporali da parte dei loro capi e sorveglianti, spesso veri e propri abusi di natura sessuale, essendo ritenuti merce di proprietà esclusiva del datore di lavoro, dunque completamente sottomessi ai loro superiori.
I concetti di igiene e sicurezza erano pressoché sconosciuti, cosicché infortuni e malanni (incrementati inoltre da una scarsa e inadatta alimentazione) portavano a un bivio nella vita di piccoli lavoratori: crescere con un fisico debilitato a vita (spesso anche con mutilazioni corporali e deficit mentali permanenti), poiché minato durante un periodo critico dello sviluppo, o morire in età precoce. Influiva in maniera drastica la non affluenza a scuola, in quanto i piccoli erano occupati nel lavoro ed educati con una disciplina rigida e cruenta da parte dei loro padroni o dei familiari stessi, qualora si occupassero di loro.
A causa dei frequenti abusi subiti , durante il XIX secolo in Europa sorgono molti orfanotrofi (o brefotrofi) dove vivono i piccoli vittime di condizioni di grave disagio psichico e fisico. I registri di tali istituzioni riportano la gravità delle loro condizioni: un bambino su quattro moriva per i maltrattamenti subiti precedentemente.
La situazione inglese era una delle più drammatiche del quadro europeo: fu culla della rivoluzione industriale, durante la quale i ragazzini lavoravano soprattutto come apprendisti nelle filande.
La filatura è semplice da apprendere, non richiede così tanta forza fisica ma agilità delle mani, il salario era minore e la loro ubbidienza più facile da ottenere con metodi rigidi e punitivi.
Si sceglievano sopratutto i figli dei ceti più poveri, che vivevano grazie all’assistenza dello Stato e delle istituzioni caritatevoli: i proprietari delle fabbriche prendevano infatti degli accordi con amministratori di parrocchie e orfanotrofi, i quali in reciproco accordo (le fabbriche ottenevano manodopera e le istituzioni sopracitate si sgravavano del peso di altre persone da sfamare e tenere con sé) reclutavano i giovani lavoranti fra le famiglie più misere o tra gli orfani che ospitavano caritatevolmente, o perlomeno fino al momento propizio.
La piaga del lavoro minorile in Italia ha dei dati ben precisi su cui basarsi per rendersi conto dello stato di miseria in cui versava il paese in epoca post-unitaria: i bambini venivano pagati 50 cent al giorno per una media di lavoro di 9-12 ore. In relazione, la loro paga giornaliera permetteva a una famiglia media italiana di comperare un chilo e mezzo circa di pane di granaglia mista (ossia di scarsa qualità).
Nel Settentrione del paese i bambini cominciavano a essere impiegati nelle primissime fabbriche sviluppatasi durante la seconda Rivoluzione industriale, mentre al Meridione si svolgevano ancora prevalentemente attività agricole (70% della popolazione italiana era dedita all’agricoltura). I lavori di cui si occupavano prevalentemente i bambini abitanti delle zone rurali, o come apprendisti affiancati da adulti o in lavoro autonomo, erano: pastore, contadino, piccolo artigiano (per i maschi), sarta, filatrice, lavandaia (per le femmine). Il contributo dei membri tutti della famiglia, anche i più piccini fin dai 5 anni, costituiva un elemento cardine su cui si basava l’economia delle famiglie italiane meno abbienti.
Se ciò che accadeva nel passato può scandalizzare, i numeri relativi allo sfruttamento del lavoro minorile sono ancora  così spaventosamente alti da creare sgomento. L’Ilo (Organizzazione Internazionale del Lavoro), in collaborazione con Unicef, ha stilato un rapporto globale sul lavoro minorile dell’anno 2013. Tra il 2008 e il 2012 vi è stato un calo notevole del numero globale di bambini sfruttati nell’impiego lavorativo: da 215 milioni a 168 milioni. Di questi 168 milioni, più del 50% svolge impieghi molto pericolosi per la loro salute psicofisica.
La maggiore concentrazione di sfruttamento minorile è riscontrabile in Asia e nell’area del Pacifico (si parla di all’incirca 78 milioni). L’Africa Sub-Sahariana continua ad essere la regione con la più cospicua percentuale di bambini impiegati nel lavoro in rapporto alla percentuale della popolazione (più del 21%).
Questa è solo una minima parte dei moltissimi dati raccolti, ma significativa: pur gioendo dei ribassi sugli spaventosi numeri dello sfruttamento infantile, la speranza rimane sempre quella di vedere nella realtà quei milioni trasformarsi in un tondo e definitivo zero.