Caso «Libero»: se la politica vuole controllare il giornalismo

Conosciamo tutti Vittorio Feltri e sappiamo tutti qual è lo spirito di Libero, il quotidiano di cui è direttore editoriale. Con queste premesse, come può stupire o scandalizzare il titolo «Patata bollente», riferito a Virginia Raggi, di ieri?
Hanno addirittura sentito il bisogno di prendere le distanze da quell’apertura i presidenti di Camera e Senato, Laura Boldrini e Pietro Grasso. La prima ha sentenziato: «Questo è giornalismo spazzatura» perché quel titolo è una «volgarità sessista», mentre la seconda carica dello Stato ha accusato Libero di «insultare volgarmente con allusioni oscene» e si è mosso a favore delle scuse di Feltri alla Raggi.
Il cortocircuito è iniziato ed è proseguito per ore: la politica diventa il cane da guardia del giornalismo, anziché il contrario. Il pubblico pretende così di entrare nel merito e giudicare le scelte di un’azienda privata che deve rispondere soltanto ai suoi lettori e, semmai, alla magistratura nel caso in cui venissero violate delle leggi. E questo, nonostante la richiesta di risarcimento paventata da Virginia Raggi, non ci sembra proprio il caso.
Intromissioni così evidenti della politica in un’azienda privata, e dulcis in fundo in un quotidiano, ricordano davvero scenari passati. Scenari che non si ripeteranno perché è davvero difficile che l’editore di Libero, Antonio Angelucci, decida di mandare via Feltri (che è anche azionista del giornale) per quel titolo. Per fortuna.
Libero può piacere o non piacere, può far ridere o fare schifo, ma queste rimangono soltanto reazioni individuali che non hanno e non devono avere alcun potere sulla linea editoriale del giornale: se, in seguito al titolo «Patata bollente», le vendite del quotidiano dovessero crollare, spetterà all’editore agire di conseguenza. Ma se, com’è probabile, tutto rimarrà stabile, significa che Libero offre ai suoi lettori ciò che vogliono. Come ha detto Giuseppe Cruciani alla Zanzara su Radio24, stiamo parlando di Libero e non del Corriere della Sera: non volendo fare gerarchie, è evidente che un’apertura come quella sulla Raggi per via Solferino e per i suoi lettori sarebbe impensabile, mentre il giornale di Feltri ha sempre avuto una fervida fantasia e una propensione per i titoli sparati, a volte riusciti a volte no.
La presunzione del potere costituito di avere il diritto di mettere il naso in qualunque faccenda è roba da Corea del Nord: criticate Libero, non compratelo e, se proprio volete, sfogatevi su Feltri e sul direttore responsabile Pietro Senaldi, ma non lanciatevi in annunci da MinCulPop all’amatriciana. La senatrice pentastellata Paola Taverna rischia davvero di appartenere a quest’ultima categoria, dopo il suo post su Facebook di solidarietà alla Raggi che si conclude così: «Sarà un piacere rivestire con il suo (di Feltri, ndr) giornale il fondo del mio secchio della spazzatura in attesa che la sua testata sparisca insieme a tante altre». Mentre il vicepresidente della Camera Luigi Di Maio è definitivo: «Ormai si è superato ogni limite».
Indignatevi come cittadini, ma non come eletti per ricoprire una carica pubblica. Pare davvero una sottigliezza ma è più rilevante di quanto possa sembrare: il titolo di Libero può non piacere, può addirittura disgustare, ma non c’è alcuna ragione perché si debba auspicare la chiusura del quotidiano per un motivo che non sia l’eventuale crollo delle vendite. Fatevene una ragione.
La «patata bollente» si sta rivelando davvero una «buccia di banana» per i presunti liberali amanti della democrazia, per rimanere sul piano delle battute allusive: finché il caldo tubero era quello di Ruby e delle olgettine (Libero nel 2011 usò lo stesso titolo) nessuna protesta, oggi invece che la «vittima» è una persona più «rispettabile» (nella gerarchia dei democratici a targhe alterne) ed è la prova del nove dei 5 Stelle al governo, ecco subito lo sdegno.