Il senso del Nobel per la pace a Juan Manuel Santos

Tra tutti i Nobel 2016 c’è ovviamente anche quello per la Pace, assegnato quest’anno al presidente della Colombia Juan Manuel Santos. Questa onorificenza in particolare ha un’implicazione di tipo politico (non politica in sé), e non a caso la stessa procedura di assegnazione è diversa rispetto alle altre. Il parlamento norvegese nomina infatti ogni anno un comitato di cinque personalità eminenti, a sua volta incaricato di passare al vaglio tutte le candidature e operare una scelta. Il presidente colombiano va solo ad aggiungersi a una lunga lista di capi di stato premiati, basta solo ricordare Barack Obama (2009).

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Questo premio assume però una valenza particolare, perché vuole essere un’ulteriore spinta verso la pace tra Governo e Farc, dopo mezzo secolo di lotte sanguinose. Anzi si è ribadito, durante la consegna, che il «No» popolare non va ad incidere sulla validità degli sforzi fatti fino a ora, e che anzi questo è un «No» solo ad alcuni punti degli accordi conclusi all’Avana nel 2016, ma non alla pace. C’è da fare una considerazione: i termini pace e accordo prevedono per definizione una dialettica, uno scambio tra almeno due individui, o enti. Perché allora il leader delle Farc Rodrigo Londono Echeverri – alias Timochenko – non è stato coinvolto in questa premiazione simbolica? A meno che Santos non stia facendo pace con se stesso, e in questo caso il fatto non avrebbe rilevanza a livello globale, con qualcuno avrà pur siglato gli accordi sopracitati. Eppure abbiamo assistito in passato a molte doppie premiazioni tra «capi» in guerra: Menachem Begin (Israele) con Mohamed Anwar El Sadat (Egitto) nel 1978, ma anche Yasser Arafat (Palestina) insieme a Shimon Peres e Yitzhak Rabin (Israele) nel 1994. Non esattamente tutti stinchi di santo, e del resto neanche Timochenko non lo è stato, ma la logica di queste premiazioni è quella adottata anche nell’anno corrente: incoraggiare la pace tra due parti in lotta. E a dirla tutta questo referendum, paradossalmente, era considerato inutile e pericoloso proprio dalle forze di sinistra. Dunque forse non un passo verso la pace ma un passo indietro. Oltre alla differenza di popolazione tra campagne (maggiormente per il «Si») e città (maggiormente per il «No»), e di questo ne abbiamo già parlato, a preoccupare era anche la corruzione del sistema colombiano, con la conseguenza di possibili brogli. Perché Santos abbia deciso di prendersi questo rischio lo si può solo intuire. Forse per prendere due piccioni con una fava- la valanga di presunti Si e consolidare il suo consenso presso il popolo, forse ha fatto il passo più lungo della gamba. Forse, forse. Sta di fatto che le sue azioni sono state ritenute meritevoli di Nobel, con l’accordo o meno di molti. Intanto, tra statuette e norvegesi sorridenti, si torna alla dura realtà. Sono infatti ricominciati i negoziati con le Farc, e stavolta c’è un nuovo ma non sconosciuto protagonista: Alvaro Uribe, ex presidente, conservatore, volto del No agli accordi così come sono formulati. Si ricomincia a trattare, ma stavolta si gioca al ribasso, e magari non solo sulle Farc. L’ex senatrice Piedad Cordoba ha inviato una lettera a Santos chiedendo di non retrocedere neanche sui diritti di genere sanciti dagli accordi precedenti. Evidentemente la svolta conservatrice spaventa un po’ tutti.
Sono passati quattro anni dall’inizio di questo percorso, a cui è stato dato l’input proprio da Santos, da sempre in rotta di collisione con le Farc. I giornali colombiani esultano – quasi tutti – per questo Nobel:  « È un Nobel che ha la funzione di riscattare una possibilità. È uno stimolo per la Colombia a cambiare le circostanze del cielo e della terra» (da La Nación). E allora sì, tutto molto bello, ma che questo asse Santos-Uribe-Timochenko (che oltretutto negli ultimi giorni si è sentito poco) non diventi un biglietto di sola andata per la repressione violenta, o peggio, per tornare indietro nel tempo.