La sindaca che fece per viltate il gran rifiuto

Virginia Raggi nei prossimi giorni formalizzerà il rifiuto suo e del Campidoglio alla candidatura di Roma come città ospitante delle Olimpiadi 2024. Non l’avesse mai fatto: neanche avesse venduto la Capitale alla mafia, ecco che l’Italia «che conta» si è subito schierata dalla parte del presidente del Coni Giovanni Malagò che, come un Enrico IV qualunque, ha aspettato mezz’ora la sindaca pentastellata (con cui aveva un incontro) prima di andarsene via.

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Stampa, politici e opinionisti di varia natura uniti in questo coro di sdegno per la vergognosa decisione di Virginia Raggi che si è dimostrata «pecora e codarda» (copyright sua delicatezza Giorgia Meloni), che ha detto «No» per «partecipare al raduno nazionale della Casaleggio Associati» (Fabrizio Rondolino, l’Unità). I 5 Stelle sono «populisti che non sanno di cosa parlano» e usano «argomenti copiati da Wikipedia» (Giovanni Malagò, nei titoli dell’Unità).
Al di là dell’opportunità o meno, in termini economici e quindi di vile denaro, di lanciarsi in un azzardo simile, è buffo che tutti questi signori facciano finta di non comprendere il primo (e a noi basta e avanza) motivo per cui Virginia Raggi ha rifiutato la candidatura di Roma: basta fare un salto indietro di poco più di tre mesi e andare a rivedersi il confronto con lo sfidante del Pd Roberto Giachetti (trasmesso dalla Rai e moderato da Lucia Annunziata) per avere tutto più chiaro. La futura sindaca della Capitale non è stata possibilista: il suo ragionamento, ossia «In campagna elettorale ho avuto modo di girare molto per Roma e i romani non mi hanno mai chiesto se si facevano o meno le Olimpiadi ma perché non passa l’autobus, perché la scuola di mio figlio non viene riparata. Pochi giorni fa dei 33 treni della metro A ne circolavano solo 17. Roma ha bisogno di ordinario, i romani ci dicono che le Olimpiadi non sono una priorità. Il dibattito si sta polarizzando su quello per sfuggire ai veri temi: trasporti, decoro, Ama», si è concluso con «Il mio è un no oggi», periodo di senso compiuto comprensibile anche a un rondolino qualunque.
Se i romani erano così favorevoli alle Olimpiadi, ritenendole una priorità, avrebbero votato Roberto Giachetti («La candidatura della città di Roma quale sede dei giochi olimpici e paraolimpici del 2024 ritengo sia una opportunità per Roma e per il Paese intero»); se invece hanno votato la Raggi è perché sono contrari ai giochi olimpici oppure perché ritengono che le priorità siano altre.
Il referendum? «Questo lo valuteremo», aveva risposto la futura sindaca ad Agorà su Rai 3. Fatto sta che ad agosto è stato bocciata in Campidoglio la mozione di Stefano Fassina (Si) per impegnare la giunta a indire un referendum consultivo sulle Olimpiadi (un solo voto favorevole, 9 contrari e 23 astenuti), mentre la raccolta firme dei Radicali è andata in vacca.
Con queste premesse, dopo essere stata una «possibilista con forte propensione al “No”» per tutta la campagna elettorale, e avendo innegabilmente guadagnato voti grazie anche a questo, con quale faccia Virginia Raggi poteva dire di «Sì»? O faceva in modo di indire un referendum consultivo, oppure — come ha fatto — ha agito secondo le proprie idee, assumendosene la responsabilità: d’altronde la democrazia rappresentativa serve appunto a delegare qualcuno a prendere le decisioni al nostro posto. Se dovesse chiedere sempre ai cittadini, cosa ci farebbe in Campidoglio? Potremmo sbagliarci ma non ricordiamo lo stesso sdegno il 14 febbraio 2012, quando Monti decise di non candidare Roma alle Olimpiadi 2020.