Stato liberale e Stato sociale: le due declinazioni della libertà in politica

A livello di pensiero politico le declinazioni dei concetti assumono un’importanza centrale. Quando parliamo d’interpretazione della libertà, la divisione di pensiero diventa nettissima. Proviamo a ragionarci.

Possiamo intendere il concetto di libertà in due modi differenti a seconda dei nostri riferimenti di pensiero.  I riferimenti ideologici possono spostarsi da uno Stato liberale a uno Stato sociale e questo implica un completo rovesciamento della funzione dell’istituzione statale. Per tutto l’800 fino ai primi decenni del ‘900 abbiamo avuto una grandissima distinzione tra il piano privato e le istituzioni pubbliche. La struttura di questa società era di tipologia liberale, dove i privati tessevano le loro relazioni facendo funzionare i vari mercati, mentre lo Stato si poneva sostanzialmente in una posizione terza, non ponendo correttivi sugli effetti prodotti nella società dall’intreccio dei rapporti tra i vari soggetti privati.

L’ideologia dominante variò nei primi decenni del 1900, con la prima guerra mondiale e soprattutto la crisi del 1929, che portò a un rovesciamento di paradigma, dove lo Stato non venne più percepito come un ostacolo al funzionamento dell’attività privata, ma come un correttore delle sue storture. Su queste basi ideologiche nacque lo Stato sociale. Per funzionare da correttore esso dovette necessariamente intervenire nell’attività economica come soggetto concorrente del sistema privato ridistribuendo la ricchezza prodotta, in maniera tale che i salari dei lavoratori raggiungessero un livello tale da permettere un sostentamento senza eccessivo indebitamento privato delle famiglie.

Su questi due livelli di pensiero si forma un evidente dualismo tra libertà e uguaglianza, dove lo Stato liberale privilegia la prima e lo Stato sociale la seconda. Apparentemente esiste solo una condizione di contrasto, ma possiamo teorizzare una libertà conciliabile con l’uguaglianza che è una libertà per mezzo dello Stato, opposta a una libertà di concezione liberale, che è una libertà dallo Stato.

Studiando queste due posizioni scopriamo che una libertà dallo Stato implica un mancato intervento regolatore delle disuguaglianze, in quanto l’economia liberista è improntata sull’autocorrezione del mercato. Non limitandone il potere, le disuguaglianze si allargano, i salari non crescono di pari passo alla produttività (come il capitalismo teoricamente vorrebbe) per mancata tutela dei lavoratori subordinati e le famiglie si trovano costrette ad acquistare sempre più beni mediante il credito al consumo, ovvero debito privato. Il solito debito privato, quello che fa scattare le crisi. Chi pone come prerogativa fondamentale la libertà sceglie di scoprire la coperta dal lato della crescita della disuguaglianza, pur di difendere i suoi ideali. È una visione di Stato negativo, una dottrina prima sconfitta e poi tornata dominante da diversi decenni.

Dall’altra parte abbiamo una libertà di concezione opposta, ovvero per mezzo dello Stato, dove quest’ultimo è lo strumento regolatore del conflitto sociale, l’istituzione che ha il compito di trovare il giusto punto di caduta tra la massima forma di libertà personale possibile, ma collegata con una decrescita della disuguaglianza. Senza questo punto di caduta, teorizzato dall’articolo 3 della Costituzione tramite il principio di uguaglianza formale e sostanziale, la libertà in senso liberale è fittizia, perché offre apparentemente a tutti l’opportunità di poter arrivare ma non offre gli strumenti, non offre la scala per poter salire fino al livello desiderato. Una democrazia idraulica dove il processo elettorale è un mero esercizio meccanico, senza che lo Stato possa effettivamente agire per fornire la scala ai propri cittadini.

L’articolo 3 comma 2 della nostra Costituzione parla chiaro: la Repubblica italiana è una democrazia sociale. Peccato che essa sia disattivata dai Trattati Europei liberali.

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