Storia recente del liberalismo per capire la sua incompatibilità con la democrazia

Proseguiamo con la nostra ricostruzione storica del liberalismo per capire la sua incompatibilità con la democrazia. Come dicevamo nell’articolo precedente, nel ‘900 i liberali si servirono di regimi totalitari per paura del comunismo. La risposta, alle proteste del popolo, alla fame e alla guerra fu la repressione dei lavoratori.

Questi regimi, come il fascismo, pur adottando politiche sociali importanti, tutelarono fortemente gli interessi del capitale. Infatti, la prima fase del fascismo fu di impronta fortemente liberista, con l’economista De Stefani che attuò politiche di liberalizzazione, di riduzione della spesa pubblica e con una politica fiscale impostata sulla regressività delle imposte. Lo stesso Benito Mussolini nel discorso del 20 settembre 1922 pronunciò queste parole: «Noi vogliamo spogliare lo Stato da tutti i suoi attributi economici. Basta con lo Stato ferroviere, con lo Stato postino, con lo Stato assicuratore. Basta con lo Stato esercente a spese di tutti i contribuenti italiani ed aggravante le esauste finanze dello Stato italiano. Resta la polizia, che assicura i galantuomini dagli attentati dei ladri e dei delinquenti; resta il maestro educatore delle nuove generazioni; resta l’esercito, che deve garantire la inviolabilità della Patria e resta la politica estera». Queste parole sono molto differenti rispetto a quelle del Manifesto dei fasci italiani di combattimento del 1919, manifesto di chiara e indubbia impronta socialista.

Stessa cosa successe in Germania e in altri paesi come il Portogallo. Le lotte di conquista dei lavoratori furono interrotte, con la creazione delle corporazioni, presentate come elemento per il superamento della lotta di classe sostituita con la collaborazione di classe, ovviamente la posizione delle classi proletarie fu indebolita ulteriormente. La posizione del capitale invece si rafforzò in maniera importante, al punto che imponeva le sue volontà al regime.

Alla fine della guerra era chiaro ai costituenti che il liberismo fu la causa principale della prima e della seconda guerra mondiale. Era evidente anche per John Maynard Keynes, una persona a cui sicuramente non si può attribuire l’appellativo di comunista. Alla fine della seconda guerra mondiale, a Bretton Woods si tenne un congresso dove si decise quale sistema economico dare al mondo occidentale. Erano due i progetti principali proposti: quello di Keynes e quello di White. Mentre White voleva un sistema economico di libero scambio basato sulla competizione tra gli stati, quindi sulle esportazioni, l’economista inglese proponeva un modello economico totalmente differente. Keynes riteneva che bisognasse cercare di limitare il più possibile il groviglio economico delle nazioni, non solo per la pace ma per il maggior benessere diffuso possibile. Inoltre, chi esportava troppo doveva essere sanzionato, mentre chi importava troppo aiutato ad esportare di più. Le nazioni, nel corso del tempo, dovevano capire che dovevano puntare sulla loro domanda interna. Gli scambi commerciali dovevano essere ridotti a ciò che era veramente indispensabile; infatti, Keynes riteneva che con il livello tecnologico esistente già allora ogni Stato potesse produrre quasi tutto da sé. Invece, la libera circolazione di capitali doveva essere severamente vietata. I capitali dovevano essere esclusivamente nazionali.

Purtroppo, il progetto dell’economista inglese non fu preso in considerazione, si decise di seguire il modello liberista, in ragione anche del fatto che gli Stati Uniti d’America in forte ascesa non avevano nessuna intenzione di ridurre il proprio potere. Nonostante tutto questo, le nazioni europee riuscirono ad avere un periodo in cui misero in piedi un’economia di stampo keynesiano, un sistema economico dove il benessere sociale diffuso era l’obiettivo più importante. Lo Stato interveniva attivamente nei processi produttivi, controllando, coordinando e disciplinando le attività produttive. Garantiva importanti diritti sociali tutelando così le fasce più deboli. Si assicurava il lavoro, sconfiggendo quasi la disoccupazione.

Ad un certo punto, negli anni ’70, complice anche l’implosione dell’Unione sovietica, l’ideologia liberista tornò prepotentemente in voga anche a causa di due economisti della scuola di Chicago: Milton Friedman e Friedrich Von Hayek. Di Von Hayek si ricorda una frase emblematica: «Preferisco un regime liberale non democratico, che una democrazia che manca di liberalismo». Le grandi multinazionali fecero anche vari esperimenti in Africa, commissionando inoltre numerosi assassinii di capi di stato che volevano liberarsi dal giogo imperialistico. Dove il liberismo lasciò una lunga scia di sangue è sicuramente il Sudamerica, con l’esempio più eclatante fornitoci dal Cile di Pinochet, liberista che andò al potere in seguito al colpo di Stato del 1973. Fu un dittatore sanguinario imposto dagli Stati Uniti, dopo che il presidente legittimo, il socialista Allende fu brutalmente assassinato dal regime. Approvò le peggiori misure liberiste, riducendo in povertà numerose persone. Nel frattempo, mentre l’Urss si indeboliva sempre più, soprattutto per questioni interne, anche in Europa si cominciarono ad applicare politiche liberiste soprattutto per preparare i paesi europei alla Comunità economica europea, oggi Unione europea.

In Italia, la data simbolo è il 1981, anno in cui ci fu il divorzio tra il Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia, con quest’ultimo che non aveva più l’obbligo di comprare i titoli di stato invenduti. Ciò significava che lo Stato per finanziarsi si doveva rivolgere ai mercati finanziari e ciò com’era prevedibile portò all’esplosione del debito pubblico in pochi anni; ciò dovuto principalmente ai tassi di interesse elevati da pagare sul debito ai creditori privati. Prima del 1981, infatti, il rapporto debito/PIL dell’Italia era sotto il 60% del PIL. Da lì cominciò l’inizio della fine del Belpaese: la classe politica, in parte impreparata, in parte collusa con il potere economico-finanziario (l’episodio del Britannia nel ’92 lo testimonia) cominciò a privatizzare massicciamente le aziende pubbliche e gli assetti strategici a prezzi di saldo. Ciò che successe in seguito è storia recentissima, con l’entrata nell’euro e la firma dei trattati europei che svendettero la sovranità nazionale all’Unione europea.