Torniamo alla reti da pesca di canapa per salvare il mare

Leggi qui la storia della canapa in Italia 

Le reti da pesca fino all’800 erano in canapa. Oggi la maggior parte delle reti è realizzata in nylon. Bisogna allora capire il motivo per cui abbiamo smesso di usufruire della canapa: la plastica e la sua campagna contro le risorse naturali. Partendo dal ‘900 fanno il loro ingresso nella società la bachelite, il PVC, il cellophane, il nylon ed il PET. La Seconda Guerra Mondiale ne prova l’utilità compensando la carenza di ferro ed altri materiali; vengono costruiti veicoli, armi e vestiti in plastica.

Matteo Gracis, giornalista e autore di «Canapa. Una storia incredibile» ha dichiarato in un’intervista a Open: «Oggi uno dei materiali che inquina di più viene fatto con il nylon che è un derivato del petrolio. Fino all’800 le reti da pesca erano fatte con la canapa. Una volta finito di usarle venivano gettate nell’oceano e nel giro di qualche anno diventavano cibo per i pesci. Quello che bisogna fare è cambiare tutta l’industria della produzione: ad esempio il portachiavi della mia auto è fabbricato di bioplastica ed è realizzato da una start-up siciliana. Ma lo stesso vale anche per la bioedilizia, il biocarburante (bioetarolo di canapa) e l’industria tessile che è tra le più inquinamenti al mondo. Non va dimenticato che i primi jeans Levi’s avevano le tasche in canapa per poter sopportare il peso delle pepite d’oro dei ricercatori».

Se da una parte in passato venivano utilizzate delle reti che potevano essere, nel medio periodo, biodegradabili, attualmente le nuove tecnologie non conferiscono  queste caratteristiche ambientali ai nuovi prodotti e questo implica la nascita delle problematiche legate all’inquinamento marino. Nell’ultimo periodo sono state fatte delle ispezioni subacque dalla divisione subacquea di Marevivo che con il supporto del Nucleo Subacqueo dei Carabinieri e della Guardia Costiera-Corpo delle Capitanerie di Porto, ha rimosso dai fondali di Isola delle Femmine e di San Vito Lo Capo, due reti fantasma, tra cui una rete spadara lunga oltre 2.500 metri, per un totale complessivo di 3mila metri. L’operazione, condotta nell’ambito di Linea Gialla, il progetto di tutela ambientale di Dhl Express Italy e Federazione Italiana Pallavolo ha coinvolto anche i biologi marini di Marevivo, i quali hanno assistito alle operazioni e svolto un’attività di analisi dello stato della rete che era adagiata su un fondale caratterizzato dalle tipiche biocenosi del coralligeno Mediterraneo. Queste tipologie di reti sono estremamente pericolose per la fauna marina e per questo illegali, in Italia, dal 2002, ma, nonostante questo, continuano a essere utilizzate minacciando gli ecosistemi marini.

Purtroppo quello riportato è solo un semplice esempio di come l’inquinamento marino possa danneggiare un ecosistema molto piccolo. Secondo un rapporto realizzato da Fao e Unep (2009), ogni anno in tutto il mondo vengono abbandonate o perse dalle 640.000 alle 800.000 tonnellate di attrezzi da pesca (reti, cordame, trappole, galleggianti, piombi, calze per mitilicoltura). Il Great Pacific Garbage Patch, più comunemente noto come isola di plastica, è costituito per il 46% da attrezzature e reti da pesca e anche nel nostro Mediterraneo. Recenti ricerche condotte in diverse località indicano che gli attrezzi da pesca possono rappresentare la maggior parte dei rifiuti marini registrati, con cifre che raggiungono anche l’89%.

Per risolvere queste problematiche, oltre a intraprendere una seria campagna di pulizia delle acque superficiali e dei fondali marini, la politica dovrebbe favorire, con incentivi o finanziamenti, nuove tecniche di produzione di strumenti da pesca che abbiano una percentuale biologica, quindi biodegradabile, pari almeno al 50%. Può questa percentuale essere caratterizzata dalla fibra di canapa, una pianta con una tradizione già secolare nel nostro Paese?