Under tourism: il fenomeno turistico post pandemia che sa di sfida

La pandemia da Covid-19 ha messo a nudo molte fragilità del nostro sistema turistico, il quale non era certamente pronto ad una catastrofe del genere, ma di questo ne abbiamo parlato già ampiamente.
Il problema di fondo messo a nudo nel turismo è stato quello della staticità: per troppo tempo, infatti, il nostro apparato d’accoglienza si è mosso come in completa automazione, aspettando le stagionalità, i grandi flussi turistici, lavorando sostanzialmente sui grossi numeri e tralasciando il resto.

Tutto bene finché va bene: gli alberghi per essere remunerativi devono spesso avere un discreto numero di camere, pronti a grossi eventi, congressi o matrimoni, quindi con un intero servizio a disposizione e si spera con tutte o quasi le camere prenotate ed occupate per la maggior parte del tempo.
Quando questa condizione non si presenta allora si iniziano a ridimensionare i numeri del personale, poi quelli dei costi fissi non che dei fornitori, magari ponendo poi delle chiusure ragionate in base ai movimenti turistici.
Questa è stata la tecnica di sopravvivenza di molte strutture per poter affrontare i continui apri e chiudi imposti dal Governo e ciò è valso anche per i ristornati, i bar, i pub ecc. ecc.
Proprio da qui si scorge la più grossa difficoltà della nostra filiera turistica, pronta per i numeri massivi, i cosiddetti full period, ma del tutto disarmata per affrontare i periodi incerti, in cui gli spostamenti sono ragionati e non di massa.

Ecco che si sviluppa il fenomeno dell’under tourism, che, in verità, già muoveva i primi passi prima della pandemia. Parliamo delle c.d., cioè le aree interne, quei paesaggi rurali spesso rimasti fuori dai radar dell’industria turistica che invece nell’estate 2020 facevano il pieno di presenze, di viaggiatori orfani dei voli internazionali o delle avventure fuori paese che di solito vengono predilette specie dai nostri giovani.
Sempre qui, su questo blog, si parlava del caso Umbria proprio nel periodo estivo 2020 e di come i numeri parlassero chiaro: il turismo ricerca qualità, esperienza e ricordi emozionanti; ma anche un basso impatto ambientale, attività all’aria aperta ed esperienze dirette con le realtà del territorio.

Se consideriamo che secondo i dati di Unioncamere e Isnart, i viaggi internazionali e intercontinentali, riprenderanno nel giro di quattro anni le attività pre Covid, principalmente per fattori quali mancanza finanziaria, paura e consapevolezza dell’impatto ambientale provocato dai nostri spostamenti. Allora diviene chiaro come il turismo di prossimità debba rendersi per forza di cosa forse unico e memorabile approdo.
Questo vuol dire però un cambiamento radicale del nostro sistema, ad ora fin troppo statico, in attesa delle stagioni massive e poco proteso ad una comunicazione integrativa del territorio e delle sue potenzialità.
I dati Isnart non lasciano spazio a equivoci:
 in Italia la comunicazione web non è utilizzata a dovere e manca di professionisti del settore per poter portare al meglio il territorio sui nostri devices, ovvero a noi nel momento in cui diveniamo turisti.

Questa è una battaglia, rivelano sempre Isnart e Unioncamere, da prendere subito seriamente, altrimenti la competizione con le altre mete fuori dal nostro Paese, ci vedrà nel breve periodo in netto svantaggio.
Infatti, per quanto l’under tourism possa e potrà valere anche per il turismo straniero nel nostro paese, il problema di fondo sarà attrarlo nelle modalità corrette, diverse da quelle studiate sino a prima della pandemia.
Questo perché, se l’Italia si conferma una delle mete più ambite al mondo, è anche vero che sta lentamente scendendo nella classifica internazionale, questo già prima della crisi da coronavirus. Le possibilità di un cambio di rotta sono tuttavia alla nostra portata, ma servono investimenti che dovranno colmare il passivo di un settore come quello turistico che da troppo tempo ha visto erodere il proprio patrimonio culturale ed economico.