Auguri per un 2019 costituzionalmente coerente

Potrebbe sembrare un’affermazione  semplicistica, riduttiva o estremamente audace, ma la nostra Costituzione (o meglio, quella originaria) è in grado di racchiudere tutto ciò di cui avremmo bisogno per affrontare un 2019 migliore dell’anno che ci stiamo lasciando alle spalle, quindi, dal punto di vista politico-economico, più felice rispetto ad almeno una decennio trascorso.
Per quale motivo si è specificato che la ricetta vincente risiederebbe non nell’attuale versione della nostra carta fondamentale, ma in quella primigenia entrata in vigore nel 1948? Per, almeno, due articoli che, nel tempo, sono stati riformati e ne hanno sconvolto l’assetto, snaturandolo e rendendolo incoerente. Ci si riferisce agli artt. 81 e 117.

Il primo, nella sua formulazione pre-riforma, recitava: «Le camere approvano ogni anno i bilanci ed il rendiconto consuntivo presentati dal governo.
L’esercizio provvisorio del bilancio non può essere concesso se non per legge e per periodi non superiori complessivamente a quattro mesi.
Con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese.
Ogni altra legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte».
Nel 2012, invece, con la maggioranza qualificata che scongiurò il referendum confermativo, il Parlamento approvò il seguente testo che prese il posto di quello precedente: «Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.
Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali.
(…)
Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei principi definiti con legge costituzionale».

Con la nuova formulazione, si giunse a inserire nella nostra legge suprema il cosiddetto pareggio di bilancio, con riferimento ai parametri stabiliti dal Trattato di Maastricht, i quali pongono dei tetti ai rapporti tra deficit e PIL, fissato al 3% e tra debito e PIL, posto al 60% (attualmente, il nostro si aggira intorno al 132%).
Questa norma, platealmente dichiarata indispensabile per non farci risucchiare dal nostro vorticoso accumulo di debito pubblico, ma verosimilmente un attentato allo stato sociale in favore del settore privato, ha condannato l’Italia a effettuare, appunto, sempre più corposi tagli a tutti i settori che lo Stato dovrebbe finanziare per garantirne il funzionamento in favore di tutti i cittadini: istruzione, sanità, assistenza, infrastrutture, ecc., per rientrare in questi rapporti fantasiosi (si leggano le dichiarazioni di Guy Abeilles), stanno vedendo progressivamente decurtati i fondi a loro destinati.

Anche il nuovo art. 117 rappresenta uno sconvolgimento del testo costituzionale redatto nell’immediato secondo dopo guerra e, conseguentemente, del nostro assetto statale: «La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali».
Così facendo, si è attribuita dignità costituzionale all’ordinamento dell’Unione Europea e ai trattati come la CEDU, ma questo che cosa comporta? Ogni volta in cui una norma nazionale contrasta con il diritto dell’UE o col contenuto di una convenzione che l’Italia ha sottoscritto e ratificato, la prima sarà debitamente disapplicata. Insomma, il potere legislativo di Roma deve prostrarsi alla volontà di Bruxelles e della comunità internazionale, o il suo esercizio sarà totalmente vano.

Se questo appare fortificante dei nostri principi con il vincolo della Convenzione dei Diritti dell’Uomo, risulta invece una collisione tra obiettivi ben differenti quella tra la Costituzione Italiana, di stampo socialista, interventista nell’economia, con i Trattati Europei, intrisi di dottrina liberista.
Infatti, la natura appena ribadita della nostra Carta Costituzionale, ben evidente nell’art. 3 comma 2 («È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese») cozza irrimediabilmente con il già esplicato pareggio di bilancio, il quale limita fortemente la capacità di spesa dello Stato e lo rende inadempiente nel suo ruolo di smorzare gli squilibri sociali. Alla stessa maniera fa con tutti gli articoli che abbisognano di un’incisiva presenza dello Stato per la loro piena applicazione, ad esempio, il 43, il quale potrebbe rivelarsi determinante in questo periodo di crisi: si potrebbero nazionalizzare, rimettere in sesto e successivamente restituire all’economia di mercato le imprese in gravi difficoltà.

Se solo l’art. 11, immodificabile ai sensi dell’art. 138, ma, nei fatti, mortificato e messo da parte, venisse alla lettera rispettato, saremmo già al riparo da queste malefiche intromissioni negli affari italiani: limitazioni, non cessioni! Chissà se ci sarà mai un Presidente della Repubblica degno del suo compito di garante della Costituzione e dell’unità nazionale che lo ricorderà a tutti.